di ANNA MARIA STEFANINI-
Guardando agli avvenimenti italiani con occhio storico si potrebbe dire che la strategia stragista costituisca fenomenologia endemica e continuamente affiorante nella storia della Repubblica Italiana, almeno fino ai primi anni Novanta e ancora oggi si protraggono indagini, processi e ricostruzioni lungo quel filo di sangue che, da Portella della ginestra attraversa Piazza Fontana, Piazza della Loggia, il treno Italicus, la stazione di Bologna sino a Capaci e via D’Amelio.
La strage siciliana del 1° maggio 1947 di Portella della Ginestra può essere considerata come la prova generale di questa via italiana per la gestione dei conflitti politici, sociali e malavitosi.
Una strage che ha un prologo importante: undici giorni prima si erano svolte le elezioni per l’istituzione dell’ARS, l’Assemblea Regionale Siciliana, organo politico centrale della Regione a statuto speciale Sicilia. Al partito della Democrazia Cristiana e al cosiddetto “blocco liberal-qualunquista” erano andate le cariche maggiori ma la maggioranza dei voti era confluita sulla coalizione PCI, PSI e PdA (Partito d’Azione) e questo mette in stato di massima allerta un’ampia rete di interessi politici, economici, mafiosi, indipendentisti e non meglio precisate “frange statunitensi”.
Quel 1° maggio di 76 anni fa diverse migliaia di contadini e lavoratori si danno convegno in località Portella della Ginestra, nel comune di Piana degli Albanesi, in provincia di Palermo, per festeggiare la performance elettorale della sinistra, la giornata dei lavoratori e per chiedere la “Riforma Agraria” e migliori condizioni di lavoro per i braccianti.
Ma a quell’incontro qualcuno convoca un personaggio che con la festa dei lavoratori c’entra ben poco: il famigerato bandito Salvatore Giuliano e la sua banda e si racconta che Giuliano abbia ricevuto l’incarico di compiere la strage tramite una “lettera”; lettera che sarebbe stata bruciata subito dopo la lettura.
Alle 10 del mattino del 1° maggio 1947 gli uomini di Giuliano aprono il fuoco a colpi di mitra sulla folla ignara; i morti saranno 11, tra cui tre bambini ma un numero mai precisato morirà successivamente a causa delle ferite.
Nei giorni successivi una lunga catena di attentati con bombe a mano e colpi di mitra prende di mira le sedi del PCI di Monreale, Carini, Cinisi, Terrasini, Partinico, S. Giuseppe Jato con un morto e numerosi feriti.
La caccia all’imprendibile bandito Giuliano si conclude solo tre anni dopo, nel 1950, con l’assassinio da parte del suo guardaspalle Gaspare Pisciotta; un assassinio molto probabilmente commissionato perché il bandito era diventato troppo scomodo e incontrollabile; potenziale fonte di pericolose rivelazioni.
È altamente probabile che a Pisciotta viene affidato anche l’incarico di depistare le indagini attraverso false dichiarazioni agli inquirenti; quando viene catturato fornisce informazioni che in breve tempo risultano inattendibili.
Malgrado questa professione di obbedienza Pisciotta non scamperà all’implacabile legge del metodo mafioso: si aspettava un trattamento di riguardo per aver tolto di mezzo Giuliano invece si troverà con una condanna all’ergastolo da scontare all’Ucciardone e nella scomoda posizione di chi può sempre fare rivelazioni inammissibili.
È così che il 9 febbraio 1954, nella sua cella, gli danno un caffè nel quale era stata disciolta una dose letale di stricnina; muore 40 minuti dopo tra atroci sofferenze addominali nell’infermeria del carcere. Le indagini riveleranno che nel carcere siciliano la stricnina era utilizzata come veleno per i topi.
Una fine simile toccherà a tanti altri membri della banda Giuliano.
Il processo di Viterbo, istruito per giudicare i colpevoli della strage, dura dal 1950 al 1953 e si conclude con la sentenza che dichiara Salvatore Giuliano e la sua banda unici e autonomi ideatori e responsabili della strage.