di ANGELO RUSSO-
«Io dipingo perché così non sono più solo.»
— Antonio Ligabue
La visione del film Volevo nascondermi, disponibile su Netflix e interpretato magistralmente da Elio Germano, mi ha spinto a scrivere questo articolo. La potenza espressiva del racconto, unita alla straordinaria interpretazione dell’attore, mi ha riportato a riflettere sul legame profondo tra sofferenza psichica e creazione artistica. Una riflessione che, da psicologo, non può prescindere dallo sguardo della psicologia del profondo, in particolare da quello junghiano.
Secondo Carl Gustav Jung, la sofferenza mentale non è solo un disturbo da curare, ma può rappresentare una crisi simbolica dell’individuazione: un momento in cui l’anima tenta di farsi ascoltare attraverso immagini, sogni, simboli. È in questo spazio che l’arte diventa molto più di un prodotto estetico: si fa linguaggio necessario, strumento di sopravvivenza e rivelazione interiore.
La vicenda di Antonio Ligabue incarna con forza questa dinamica. Nato nel 1899 a Zurigo da madre italiana, visse fin da piccolo un’infanzia segnata da rifiuto, abbandono e solitudine. Espulso dalla Svizzera, fu internato in manicomio e visse gran parte della sua esistenza nella marginalità, nella povertà e nell’incomprensione. Eppure, da questo terreno aspro e drammatico, nacque un’energia creativa straordinaria: Ligabue dipingeva con furia, con urgenza, restituendoci immagini primordiali, istintive, visionarie.
I suoi soggetti più frequenti – animali selvaggi in lotta, autoritratti deformati, paesaggi carichi di tensione – parlano direttamente all’inconscio. Sono rappresentazioni archetipiche, simboli di forze interiori spesso non integrate. La tigre, il leone, il serpente: istinti vitali e distruttivi, manifestazioni dell’Ombra junghiana, che nella pittura trovano forma e voce. Così come i suoi volti, spesso grotteschi, sembrano gridare un bisogno di identità, una ricerca di sé che passa attraverso l’immagine.
In termini junghiani, si può dire che l’arte di Ligabue fu il suo personale processo di individuazione.
Senza filtri intellettuali, senza tecnica accademica, egli dipingeva ciò che lo abitava, restituendo al mondo le visioni del proprio inconscio. Ogni opera era un atto di ricomposizione, un modo per riorganizzare il caos psichico e costruire un ponte tra mondo interno ed esterno.
Ciò che commuove in Ligabue non è solo il dolore che traspare, ma la potenza con cui quel dolore viene trasformato in forma. L’arte, nella sua vita, non è stata un abbellimento, ma una necessità esistenziale. Uno spazio di comunicazione con l’altro, ma soprattutto con sé stesso.
Come scrive Carl Gustav Jung: «L’arte è una sorta di istinto innato per la trasformazione, per l’espressione dell’inconscio in forma simbolica.» È esattamente ciò che accade in Ligabue: la follia, invece di distruggere, diventa voce; la frattura interiore diventa immagine; e l’artista, pur nel suo isolamento, riesce a dialogare con l’universale.
La sua opera ci interroga ancora oggi, ricordandoci che la creatività autentica nasce da una sinergia
profonda con il proprio mondo interiore. L’arte, in tutte le sue forme, può diventare uno strumento
potente per esplorare e dare voce all’anima, anche nei momenti di conflitto o crisi.