Arte e follia: la creatività come via dell’anima. Il caso Ligabue

di ANGELO RUSSO-

«Io dipingo perché così non sono più solo.»
— Antonio Ligabue
La visione del film Volevo nascondermi, disponibile su Netflix e interpretato magistralmente da Elio Germano, mi ha spinto a scrivere questo articolo. La potenza espressiva del racconto, unita alla straordinaria interpretazione dell’attore, mi ha riportato a riflettere sul legame profondo tra sofferenza psichica e creazione artistica. Una riflessione che, da psicologo, non può prescindere dallo sguardo della psicologia del profondo, in particolare da quello junghiano.
Secondo Carl Gustav Jung, la sofferenza mentale non è solo un disturbo da curare, ma può rappresentare una crisi simbolica dell’individuazione: un momento in cui l’anima tenta di farsi ascoltare attraverso immagini, sogni, simboli. È in questo spazio che l’arte diventa molto più di un prodotto estetico: si fa linguaggio necessario, strumento di sopravvivenza e rivelazione interiore.
La vicenda di Antonio Ligabue incarna con forza questa dinamica. Nato nel 1899 a Zurigo da madre italiana, visse fin da piccolo un’infanzia segnata da rifiuto, abbandono e solitudine. Espulso dalla Svizzera, fu internato in manicomio e visse gran parte della sua esistenza nella marginalità, nella povertà e nell’incomprensione. Eppure, da questo terreno aspro e drammatico, nacque un’energia creativa straordinaria: Ligabue dipingeva con furia, con urgenza, restituendoci immagini primordiali, istintive, visionarie.
I suoi soggetti più frequenti – animali selvaggi in lotta, autoritratti deformati, paesaggi carichi di tensione – parlano direttamente all’inconscio. Sono rappresentazioni archetipiche, simboli di forze interiori spesso non integrate. La tigre, il leone, il serpente: istinti vitali e distruttivi, manifestazioni dell’Ombra junghiana, che nella pittura trovano forma e voce. Così come i suoi volti, spesso grotteschi, sembrano gridare un bisogno di identità, una ricerca di sé che passa attraverso l’immagine.
In termini junghiani, si può dire che l’arte di Ligabue fu il suo personale processo di individuazione.
Senza filtri intellettuali, senza tecnica accademica, egli dipingeva ciò che lo abitava, restituendo al mondo le visioni del proprio inconscio. Ogni opera era un atto di ricomposizione, un modo per riorganizzare il caos psichico e costruire un ponte tra mondo interno ed esterno.
Ciò che commuove in Ligabue non è solo il dolore che traspare, ma la potenza con cui quel dolore viene trasformato in forma. L’arte, nella sua vita, non è stata un abbellimento, ma una necessità esistenziale. Uno spazio di comunicazione con l’altro, ma soprattutto con sé stesso.
Come scrive Carl Gustav Jung: «L’arte è una sorta di istinto innato per la trasformazione, per l’espressione dell’inconscio in forma simbolica.» È esattamente ciò che accade in Ligabue: la follia, invece di distruggere, diventa voce; la frattura interiore diventa immagine; e l’artista, pur nel suo isolamento, riesce a dialogare con l’universale.
La sua opera ci interroga ancora oggi, ricordandoci che la creatività autentica nasce da una sinergia
profonda con il proprio mondo interiore. L’arte, in tutte le sue forme, può diventare uno strumento
potente per esplorare e dare voce all’anima, anche nei momenti di conflitto o crisi.

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Provocazione o Geniale Bluff? Il Caso della Banana di Cattelan

di ANGELO RUSSO –

VITERBO – L’arte è solo tecnica e bellezza? Una prospettiva psicologica

Un ricordo, una premessa: era il 1991 e mi trovavo presso la ditta Scenotecnica, nei dintorni di Roma, per realizzare in scala, dal bozzetto alla realtà, le forme di Sinfonia d’Archi, la Macchina di Santa Rosa che avrebbe sfilato per le strade di Viterbo. All’epoca non esisteva la stampa 3D, e dei tecnici esperti scolpivano con fili caldi blocchi di polistirolo ad alta densità, riproducendo fedelmente il bozzetto vincitore dell’appalto.

Era un laboratorio enorme. In quel periodo, il regista Franco Zeffirelli vi stava realizzando le scenografie per un suo prossimo lavoro. Rimasi impressionato dalla perfezione con cui quei maestri scolpivano statue nei minimi dettagli, dalle vene nei corpi ai drappeggi delle vesti. Ammirato, dissi loro: “Siete dei veri artisti!”. Uno di loro, sorridendo, rispose: “Noi siamo bravissimi a copiare. Se ci porti più immagini della Pietà di Michelangelo da varie angolazioni, possiamo riprodurla perfettamente, facendola sembrare marmo di Carrara. Ma non siamo artisti, siamo artigiani. Se mi mettessi davanti a un foglio bianco e mi chiedessi di creare qualcosa, non saprei da dove iniziare”.

La sua umiltà e consapevolezza ridefinirono il concetto stesso di arte. Ogni epoca ha avuto la propria idea di cosa sia arte, ma ridurla a mera abilità tecnica significa ignorarne la vera essenza: la capacità di comunicare, di provocare riflessione, di trasformare il nostro modo di vedere il mondo.

L’arte come simbolo e trasformazione

Dal punto di vista psicologico, il rifiuto di nuove forme d’arte può essere visto come una resistenza al cambiamento, un tentativo di aggrapparsi a schemi rassicuranti. Secondo Jung, il percorso di individuazione dell’essere umano passa attraverso l’integrazione degli opposti: l’arte, analogamente, non può rimanere ancorata alla sola tecnica, ma deve aprirsi all’idea, al simbolo, alla trasformazione.

Jung distingue tra segno e simbolo: il primo ha un significato chiaro e definito, mentre il secondo è aperto, evocativo, capace di parlare all’inconscio. L’arte puramente tecnica è più simile a un segno, perché rappresenta la realtà in modo fedele e armonioso. L’arte concettuale, invece, lavora sul simbolo, lasciando spazio all’interpretazione e al dialogo con le parti più profonde della psiche.

Chi rifiuta l’arte concettuale spesso cerca sicurezza estetica, ovvero una bellezza oggettiva e rassicurante. Ma l’arte, come l’inconscio, non è sempre rassicurante: a volte provoca, scuote, mette in crisi. L’orinatoio di Duchamp non è bello nel senso tradizionale, ma ha cambiato la concezione stessa dell’arte, proprio come un sogno disturbante può aiutarci a comprendere aspetti nascosti di noi stessi.

Il rifiuto del nuovo: un bias cognitivo

Il passaggio dall’arte figurativa all’arte concettuale ha generato forti resistenze, come ogni cambiamento culturale. Il rifiuto di certe forme d’arte è spesso il risultato di un bias cognitivo, ovvero la difficoltà di accettare un’idea che mette in crisi le nostre convinzioni. Se pensiamo all’orinatoio di Duchamp o alle lattine di Warhol, inizialmente furono derisi, ma col tempo hanno segnato una svolta nella storia dell’arte.

I tanti critici dell’arte contemporanea spesso sostengono che la “vera” arte debba essere tecnicamente complessa, bella secondo canoni tradizionali e priva di speculazioni concettuali. Denunciano la mercificazione del settore e rimpiangono i valori estetici del passato. Tuttavia, questa visione è limitata: l’arte non è solo abilità tecnica, ma anche espressione di idee e trasformazione culturale. Confondere arte con artigianato significa ignorarne l’evoluzione. Inoltre, il valore di un’opera va contestualizzato nel suo tempo, evitando giudizi superficiali.

L’arte contemporanea, con la sua complessità e provocazione, ci invita a mettere in discussione i nostri preconcetti e ad abbracciare nuovi significati. Piuttosto che respingerla, dovremmo cercare di comprenderne il messaggio.

Il Caso Comedian: un fenomeno globale

Nel 2019, Maurizio Cattelan presentò Comedian, una banana attaccata al muro con del nastro adesivo, venduta per 120.000 dollari e successivamente battuta all’asta per 6,2 milioni di dollari. L’opera scatenò un acceso dibattito: geniale intuizione o presa in giro?

Se consideriamo l’arte solo come abilità manuale, questa opera appare insensata. Ma se la vediamo come concetto e comunicazione, il discorso cambia. La banana di Cattelan è diventata arte non per il suo valore materiale, ma perché ha innescato un dialogo globale sul senso stesso dell’arte, sul mercato e sul ruolo dell’artista.

Duchamp ci ha insegnato che un oggetto comune può diventare arte se inserito in un contesto che lo rilegge in modo nuovo. La banana, in questa chiave, diventa un simbolo aperto: può essere una critica all’assurdità del mercato dell’arte, una riflessione sul valore che attribuiamo agli oggetti o un atto ironico che mette alla prova il sistema dell’arte contemporanea.

Libertà di giudizio, ma non di negare l’evoluzione

Ognuno può avere la propria opinione su Comedian e sull’arte concettuale. Alcuni la trovano affascinante, altri ridicola. Ma ciò che non si può negare è che l’arte, come la psiche umana, è in costante evoluzione.

L’arte non è più solo tecnica e rappresentazione del bello: oggi è anche provocazione, simbolo, comunicazione, proprio come il linguaggio visivo dei sogni nell’inconscio. Il valore di un’opera non sta solo nella sua esecuzione, ma nell’effetto che ha sulla società e nella sua capacità di generare significati.

La banana di Cattelan è arte o bluff? Probabilmente entrambe le cose. E proprio per questo continua a far parlare di sé. Forse la vera opera non è stata la banana in sé, ma il fatto che il mondo intero ne abbia discusso.

 




Il simbolismo nell’arte

di ANGELO RUSSO-

VITERBO- “Non solo la semplice rappresentazione della realtà ma un ponte tra conscio e inconscio.” Nato alla fine dell’Ottocento, il movimento simbolista nell’arte superava la realtà tangibile per rappresentare emozioni, idee e verità universali. Artisti come Gustav Klimt, Odilon Redon e Arnold Böcklin creavano immagini oniriche e misteriose che evocavano archetipi e stati profondi dell’anima. La loro arte non descriveva il mondo esterno, ma esplorava l’invisibile, invitando lo spettatore a un dialogo interiore.
Il simbolismo, sia nell’arte che nella psicologia analitica, diventa uno strumento per sondare il mondo interiore. Attraverso immagini, forme e colori, l’arte simbolista e la teoria junghiana si incontrano per rivelare ciò che è nascosto sotto la superficie della coscienza. In entrambi i campi, il simbolo è un ponte tra conscio e inconscio, tra visibile e invisibile, tra esperienza individuale e realtà universale.
Nella psicologia analitica, i simboli sono essenziali per il processo di individuazione, ossia il raggiungimento della piena realizzazione del Sé. Gli artisti, consapevolmente o meno, svolgono un ruolo simile a quello dello psicoanalista: portano alla luce immagini che connettono l’inconscio personale con quello collettivo, guidando l’osservatore verso una comprensione più profonda.
Come disse Jung: “L’anima si esprime attraverso simboli, e l’arte è il suo linguaggio più naturale”.
Il Bacio di Gustav Klimt
Questo celebre dipinto, il più conosciuto e simbolista di Klimt (1907-1908), è considerato un’icona del simbolismo e dell’arte moderna. Con la sua straordinaria combinazione di elementi decorativi e un profondo substrato emotivo, rappresenta l’amore universale e l’unione tra maschile e femminile, un concetto che richiama l’unificazione degli opposti, ampiamente trattata nelle teorie della Psicologia Analitica. Quest’opera non è una semplice scena romantica: è un’esplorazione profonda dell’unione tra corpo e spirito, tra desiderio terreno e amore ideale, temi centrali del simbolismo. La posizione dei personaggi ei dettagli stilistici suggeriscono la fusione e la perdita del sé nell’altro, elementi che collegano l’opera a significati universali e archetipici. Gli archetipi, secondo Carl Gustav Jung, rappresentano temi fondamentali dell’esperienza umana collettiva, come l’amore, la morte, il viaggio, la madre o l’eroe. Questi si manifestano in miti, sogni, religioni e opere d’arte, connettendosi direttamente alla profondità dell’animo umano.
Nel “Bacio”, La coppia è avvolta in una spirale dorata di ornamenti, dove ogni dettaglio, dai motivi geometrici ai fiori, contribuisce a creare un senso di sacralità e trascendenza. Il fondo dorato richiama l’arte bizantina, ma al tempo stesso dona al dipinto un’atmosfera simbolica e senza tempo. Inoltre i motivi dorati ei corpi avvolti in decorazioni elaborate richiamano il tema della trasformazione, spesso associato al processo alchemico: il bisogno di “sciogliere” vecchie strutture o convinzioni per “ricomporle” in una nuova forma più elevata e integra.
Nell’alchimia, solve et coagula rappresenta il processo continuo di trasformazione interiore, volto a raggiungere una forma di perfezione, spesso associata al Sé o alla realizzazione spirituale, simbolicamente è la ricerca di trasformazione da materiali poveri in ORO.
Risolvere (sciogli): Nel quadro, il processo di “scioglimento” può essere visto come la dissoluzione dei confini individuali dei due amanti. Le figure sembrano perdere la loro identità separata, quasi fondendosi in un unico essere. Questo dissolve l’ego e le barriere personali, evocando la trasformazione interiore necessaria per abbandonare sé stessi e accedere a uno stato di unione superiore. L’effetto dorato e astratto del fondo e dei motivi decorativi sottolinea questa dissoluzione, portando le figure fuori dal tempo e dallo spazio ordinario.
Coagula (coagula): Al contempo, il processo di “coagulazione” si manifesta nella fusione armoniosa dei due amanti in un’unica entità simbolica. I corpi non sono più separati, ma intrecciati in una composizione fluida, uniti da un amore che trascende il materiale. I dettagli decorativi (forme geometriche per l’uomo e motivi floreali per la donna) simboleggiano le energie maschili e femminili che, attraverso questa fusione, trovano un equilibrio armonico e una nuova completezza.
In termini alchemici, il dipinto rappresentando l’unione degli opposti – maschile e femminile, spirito e materia, conscio e inconscio – dona vita a un nuovo stato di totalità: la pietra filosofale simbolica. La fusione amorosa diventa quindi una metafora di un processo spirituale di trasformazione e realizzazione del Sé, dove l’amore non è solo carnale, ma una via per raggiungere una dimensione più alta dell’essere.




Paul Gauguin: L’arte come viaggio verso il Sé

di ANGELO RUSSO-

VITERBO- Paul Gauguin, celebre pittore post-impressionista, incarna la figura dell’artista ribelle che abbandona la civiltà per ritrovare sé stesso. Prima di dedicarsi completamente all’arte, Gauguin lavorò come agente di cambio a Parigi, conducendo una vita borghese apparentemente stabile. Tuttavia, con il crollo del mercato finanziario e una crescente insoddisfazione per la routine lavorativa, iniziò a maturare un senso di frustrazione. La crisi economica, unita alla difficoltà di affermarsi come artista e alla rottura con la sua famiglia, lo spinse a cercare una nuova dimensione esistenziale, lontana dalla società occidentale.

Questa fuga può essere letta non solo come un rifiuto del materialismo e delle convenzioni sociali, ma anche come un viaggio interiore, profondamente legato al processo di individuazione descritto da Carl Gustav Jung.

Secondo Jung, il processo di individuazione rappresenta la ricerca dell’autenticità, il percorso che porta l’individuo a liberarsi delle maschere imposte dalla società (la Persona) e a confrontarsi con i lati nascosti della propria psiche (l’Ombra). Gauguin, insoddisfatto della vita borghese e dei limiti dell’arte accademica, sceglie di esplorare culture esotiche e lontane, idealizzandole come un “paradiso perduto”. Questo desiderio di ritorno a una condizione primordiale può essere interpretato come un tentativo di riconnessione con le radici profonde della propria anima e della creatività.

A Tahiti, Gauguin si immerge in un mondo che percepisce come libero dalle sovrastrutture occidentali. Qui, attraverso le sue opere, affronta simbolicamente l’Ombra: nei colori intensi e nei soggetti mitici emerge una tensione tra idealizzazione e realtà. Le donne tahitiane che raffigura, spesso intrise di mistero e spiritualità, possono essere lette come manifestazioni dell’Anima, l’archetipo femminile dell’inconscio maschile che, secondo Jung, rappresenta una porta verso il Sé autentico.

Il suo viaggio fisico e artistico, tuttavia, non è privo di conflitti. L’idea di un paradiso incontaminato si scontra con le difficoltà concrete dell’esilio: la solitudine, la malattia e la disillusione. Ma è proprio in questa tensione che risiede la forza della sua arte. Come in ogni processo di individuazione, il confronto con le ombre della realtà diventa essenziale per la creazione di un’identità più autentica.

In definitiva, Gauguin utilizza la pittura come strumento per navigare i propri conflitti interiori e le proprie aspirazioni spirituali. La sua vicenda non è solo una fuga dalla civiltà, ma un viaggio archetipico verso il Sé, in cui l’arte diventa specchio e guida di una trasformazione profonda. Gauguin ci insegna che l’autenticità non è data dalla fuga, ma dal coraggio di affrontare il caos interiore e trasformarlo in bellezza.




L’amore e il suo rovescio

di ANGELO RUSSO-

Dagli artisti che hanno trattato l’amore alla letteratura sull’insuccesso delle relazioni amorose.

Dosso Dossi  – il Risveglio di venere 1520

Il 7 Aprile p.v. chiuderà i battenti, a Terni presso palazzo Montani Leoni, la bellissima mostra “AMARSI”: l’Amore nell’Arte da Tiziano a Banksy. La mostra, un omaggio a San Valentino, protettore degli innamorati e patrono di Terni, propone un affascinante percorso attraverso le diverse rappresentazioni artistiche di questo sentimento universale.

Cosa del tutto inconsueta l’ingresso è sempre gratuito per ammirare, tra gli altri, i capolavori di Dosso Dossi come “Psiche abbandonata da Amore”, Tintoretto, “Venere con le tre Grazie», Guercino “Venere, Cupido e Marte” è inoltre possibile ammirare lo studio ad acquarello del “Bacio” di Francesco Hayez. Sono esposti anche artisti del 900 che hanno trattato il tema dell’amore attraverso la propria cifra stilistica “Gli addii” (Ettore e Andromaca) di Giorgio de Chirico,”Il dubbi” di Giacomo Balla, «Balloon Girl» di Banksy. Una occasione da non perdere per chi ama l’arte.

L’amore, questa grande energia vitale, come ogni Rosa ha nella sua struttura anche le spine, ed è proprio di queste che parleremo. Il rovescio della medaglia dell’amore: l’insuccesso nelle relazioni amorose.

Tiziano – Venere e Adone 1554

Nell’introduzione del suo libro, “Riti e Miti della seduzione” ( Bompiani 1994), Aldo Carotenuto scrive: “La seduzione è qualcosa di più di un’esperienza saltuaria nella nostra vita sentimentale, esercitata o subita, è una costante della nostra intera esistenza, la trama stessa del nostro entrare in contatto, in sintonia, col mondo”.

Chi è capace di sedurre, non c’è che dire, affascina. È indicativa una frase di Stefan Zweig: “nessun uomo che sia un vero uomo può leggere le Memorie di Casanova per alcune ore senza provare un sentimento d’invidia”. È facile scrivere di seduzione, gli esempi sono tanti e appartenenti a tutti i periodi storici. La letteratura ne è piena.

Diversa è la storia del rovescio della medaglia: gli insuccessi nelle relazioni amorose. La letteratura ne parla molto meno, si tende a rimuoverli, a ritenere che non sono interessanti per chi legge o in ogni caso argomenti da non esaltare. In chiave psicologica, al contrario, conoscere le dinamiche legate alle innumerevoli frustrazioni della vita può diventare un aiuto alla comprensione delle varie sfaccettature della personalità. Ed è proprio in questo contesto che s’inserisce l’argomento che stiamo trattando, prendendo spunto dalla vita e gli incontri importanti con l’altro sesso di uno tra i più grandi poeti italiani: Giacomo Leopardi.

“Sono un tronco che sente e pena”. Così scrisse il poeta, in una dedica, ai suoi amici della Toscana nel 1830. La frase esprime molto bene lo stato di Leopardi, un uomo pieno di sentimenti e di dolori, abbruttito dalla malattia e dalle disgrazie. Nonostante lo sgradevole aspetto fisico, il giovane studioso di Recanati, contrapponeva una bellezza interiore straordinaria. Nonostante ciò, non trovò mai una donna con cui dividere la sua breve esistenza. Morì a solo 39 anni. Osservando la vita sentimentale del poeta in una prospettiva Junghiana è possibile ipotizzare alcune probabili cause dell’insuccesso sentimentale. Al primo posto il rapporto con la madre: Adelaide Antici, pur essendo una donna leale e laboriosa, severamente cattolica donava elemosine ai poveri e aiutava i malati e gli anziani, aveva un carattere molto duro. Nonostante sembrasse l’ideale come moglie e madre, le mancavano alcune importanti caratteristiche essenziali verso la famiglia: l’amore, il calore, la tenerezza. Secondo lei bisognava tenere i figli ad una certa distanza. Il piccolo Giacomo visse in questo contesto relazionale maturando sentimenti ambivalenti nei confronti del gentil sesso. Probabilmente non avere una buona relazione con la madre ebbe un’influenza negativa sul giovane Giacomo. La prima donna di cui Leopardi s’innamorò fu Geltrude Cassi Lazzari, sua cugina. Poi seguirono Teresa: la “Silvia” della famosa poesia e Fanny Targioni Tozzetti, descritta in Aspasia. Amori mai agiti, lontananze sofferte, delusioni.

Banksy – Girl with ballon 2002

Secondo le teorie Junghiane, in questi casi “l’anima” (la parte femminile nell’uomo) si manifesta con irritabilità, depressione, mancanza di sicurezza, incertezza e permalosità. L’uomo tenderà a sentirsi una nullità, sperimentare un’esagerata paura di malattie e disgrazie, e vivere la vita con pesantezza e varie forme di negatività. Molte di queste caratteristiche le troviamo in Leopardi: la nullità, la noia, l’avverso destino crudele e la natura matrigna e cattiva. A causa della mancanza d’affetto materno, l’anima, per Leopardi, diventa un simbolo dell’amore irreale, del sogno impossibile di felicità e di calore materno. Leopardi cerca nel sogno quello che gli manca nella vita reale. E quando conosce una donna, quando si innamora, fa una proiezione dell’anima propria sulla donna. Invece di vedere la donna com’è, crea intorno a lei delle fantasie e costruisce una donna

idealizzata, che non esiste. S’innamora dell’idea amorosa che è dentro di sé, quell’immagine perfetta, di cui parla nella “Aspasia”, e in altre parole la sua parte femminile, la sua anima.

Purtroppo tali innamoramenti sono destinati a fallire: appena svegliati dal sogno appare la donna reale e l’incanto cade. Non è la donna ad essere amata ma quelle fantasie e qualità create intorno a Lei.

“…Ora, però, l’idea, che io amai tanto, di Aspasia è morta. È morta per sempre, e di tanto in tanto mi suole ritornare e scomparire la sua sbiadita immagine. Tu, invece, Aspasia reale vivi e sei sempre tento bella Che superi tutte le altre. La passione che era nata per te è morta: perché io amai non te, ma l’idea della bellezza che ha ancora via nel mio cuore, mentre il mio cuore è diventato un sepolcro per te…” (da Aspasia di G. Leopardi)




A 430 anni dall’Annus Mirabilis di Caravaggio Roma celebra il gigante dell’arte con un evento ideato e curato da Anna Maria Stefanini

di ANNA MARIA STEFANINI –

ROMA – “Bacchino malato”, “Fanciullo con canestro di frutta”, “Buona Ventura”, “I bari”, “Maddalena penitente”, “S. Francesco d’Assisi in estasi”; tutte opere realizzate a Roma nel 1594 da Michelangelo Merisi detto Caravaggio.


Il 1594 è anche l’anno in cui la presenza del pittore nella Città Eterna, concluso il periodo milanese, è effettivamente documentata da fonti storiografiche.

La giornalista e manager culturale Anna Maria Brazzò ha riallacciato il filo della memoria mediante un’operazione di ingegneria scenica costruita intorno allo spettatore, andata in scena la serata di giovedì 26 gennaio. Sito-laboratorio dell’evento Palazzo Ferrajoli, l’interfaccia architettonica di Palazzo Chigi.
L’evento è stato in realtà una joint venture fra Anna Maria Brazzò e l’imprenditrice siciliana Antonella Amico, titolare dell’azienda LaborAnto di Erice, specializzata nella produzione di borse e stole con tessuti pregiati in Sicilia.
Il filo conduttore è stato dipanato dalla giornalista viterbese Anna Maria Stefanini che ha amministrato la linea del tempo mantenendo gli accordi dell’intera partitura scenica.

Anna Maria Stefanini

Il nucleo dell’evento è coinciso con l’esperienza immersiva dei “Tableau Vivant” messi in scena dalla compagnia “Ludovica Rambelli Teatro”; in sostanza una simbiosi tra teatro, musica e pittura in cui gli attori prestano volti e corpi alla rappresentazione, realizzata con perizia filologica, delle opere di Michelangelo Merisi.

Il pomeriggio romano ha visto anche la partecipazione, in qualità di ospiti d’onore, di Mons. Jean-Marie Gervais, Prefetto Coadiutore del Capitolo della Basilica Papale di San Pietro in Vaticano, Commendatore dell’Ordine del Santo Sepolcro di Gerusalemme, storico e latinista nonché presidente e animatore dell’associazione “Tota Pulchra” che promuove le arti quali alta espressione della tensione umana verso il divino e di Monsignor José Manuel Del Rio Carrasco, sottosegretario della Pontificia Commissione per i Beni culturali della Santa Sede.

La parte critica e stilistica è stata affidata all’artista, critico e docente Massimiliano Ferragina.
Molto apprezzato dal pubblico anche l’intermezzo gastronomico preparato dallo chef Enrico Maggi, docente e titolare dell’omonima caffetteria.
Eleganza e bellezza nella sfilata di borse e stole di LaborAnto che hanno incantato il folto pubblico presente.
Le meravigliose voci di Ana Lushi, Marcella Foranna e Ombretta Santoro hanno coronato di note ed emozioni gli storici saloni del palazzo, in un evento culturale e artistico unico e indimenticabile.

La fotografia è stata magistralmente curata anche dal giornalista viterbese Giancarlo De Zanet.




La violenza di genere. Dalle testimonianze nell’arte alle analisi psicologiche

di ANGELO RUSSO-

In questo affresco di Tiziano Vecellio del 1511 è rappresentata con estrema durezza un femminicidio. In primo piano si vede il marito, cavaliere, rivestito di un elegante abito a scacchi bianchi e rossi, che sono i colori della città di Padova, accecato dall’idea di essere stato tradito dalla moglie. La donna, con un gesto di possesso brutale, viene trattenuta con forza dai capelli. Il pugnale ha già colpito al petto la sua vittima e dalla ferita si vede il sangue che fuoriesce dalla veste bianca. Il resto della veste è giallo, il colore della gelosia. La moglie sembra volersi riparare con un gesto estremo, quanto inutile, dalla furia del marito geloso che, accecato dall’ira, compie l’insano gesto.

Sullo sfondo del quadro, si vede il miracolo: il marito geloso, ora pentito della sua violenza, inginocchiato davanti a Sant’Antonio che concede il perdono e per sua intercessione la moglie torna sana. Un’opera abbastanza rivoluzionaria quella di Tiziano che abbandona scenari più usuali e tranquilli per rappresentare con grande perizia, nei volti e nella postura, la brutale violenza dell’uomo e il terrore della donna.
Purtroppo ancora oggi la violenza sulle donne è una piaga difficile da estirpare. Le Nazioni Unite definiscono la violenza contro le donne come “qualsiasi atto di violenza fondata sul genere che comporti, o abbia probabilità di comportare, sofferenze o danni fisici, sessuali o mentali per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà.

Tra i grandi artisti del passato che hanno dipinto la violenza troviamo:

Tintoretto, Tarquinio e Lucrezia, 1610 circa, olio su tela, 187×214,5 cm, Ermitage, San Pietroburgo

Tintoretto, Tarquinio e Lucrezia, 1610 circa, olio su tela, 187×214,5 cm, Ermitage, San Pietroburgo

Gian Lorenzo Bernini, Il ratto di Proserpina, 1621-1622, Marmo di Carrara, h. 255 cm, Galleria Borghese, Roma

Edgar Degas, Lo stupro, 868–1869, Philadelphia Museum of Art

In questo contesto, da un punto di vista psicologico, poniamo l’attenzione su alcune forme di violenza, purtroppo sempre a danno delle donne.

Gian Lorenzo Bernini, Il ratto di Proserpina, 1621-1622, Marmo di Carrara, h. 255 cm, Galleria Borghese, Roma

Sgombriamo il campo da equivoci, lo stupro ha poco a che vedere con l’atto sessuale.
Sostanzialmente si tratta di dinamiche aggressive con componenti di rabbia, sopraffazione e violenza. Alcuni studi attribuiscono il 55% degli stupri al bisogno di potere, il 40% ad una forma di rabbia mentre il 5% sarebbero di tipo sadico. In tutti i casi esiste, nello stupratore, un pessimo rapporto con la propria sessualità e la coesistenza di disturbi di varia natura, i più frequenti sono legati al desiderio sessuale e alcune disfunzioni nell’ambito della stessa sfera sessuale. Lo stupro può diventare un modo per essere rassicurati rispetto alla propria adeguatezza sessuale negli individui che hanno difficoltà a stabilire relazione interpersonali. Il violentatore attraverso la sopraffazione della vittima esprime odio e rabbia per un bisogno di vendetta nei confronti delle donne in generale e difficilmente nella malcapitata vittima. Nella violenza di tipo sadico, fortunatamente la meno comune, la fonte di piacere proviene dal vedere soffrire la propria vittima;
sono frequenti in questo caso morsi, ustioni di sigaretta, schiaffi e pugni. Un ulteriore dato,
riguardo agli stupratori rilevato da diverse fonti, è il seguente: l’85% ha commesso reati in passato; Il 75% ha meno di 30 anni; il 70% è sposato; il 75% non conosce la vittima; il 50% era ubriaco; il 35% ha commesso un altro stupro.
C’è un pessimo mito da sfatare, uno “strano” punto di vista che attribuisce alla donna la voglia di essere violentata e di goderne. La “storiella” che a provocare l’uomo sia un certo tipo di abbigliamento che provoca e che lo renderebbe vittima delle sue reazioni non regge, tant’è che

Edgar Degas, Lo stupro, 868–1869, Philadelphia Museum of Art

spesso i violentati sono bambini o donne in età avanzata. Lo stupro sulla vittima ha effetti nefasti. Quasi sempre il calvario inizia con le prime cure mediche affrontate sempre con vergogna e, immotivati ma giustificabili, sensi di colpa. Successivamente subentra la paura di aver contratto malattie a trasmissione sessuale o quella di essere rimaste incinta. Ancora paura e indecisione su cosa fare, accompagnano per molto tempo la vittima. Denunciare o no la violenza? È questo un ulteriore dilemma: la paura di ritorsioni da parte dello stupratore, la pubblicità negativa o il disagio di fronte alle autorità giudiziarie possono giocare un ruolo fondamentale. Dopo lo stupro, possono verificarsi alcuni problemi di natura sessuale come diminuzione del desiderio, vaginismo (contrazione involontaria dei muscoli vaginali che non permettono il rapporto) o assenza
del piacere, ma anche altri effetti psicologici spesso rilevanti. La vittima deve convivere con vergogna, rabbia e orgoglio ferito. È necessario qualche mese prima che inizi la ripresa, anche se si sforza di apparire normale cercando di riallacciare i rapporti di amicizia e quelli con le persone significative. In realtà le paure sono ancora presenti. Ci vorrà ancora del tempo e, in molti casi, un valido aiuto terapeutico per superare l’angoscia del trauma subito. In molte donne violentate si manifestano, per lunghi periodi, incubi notturni e la paura di rimanere sole ma principalmente, e non potrebbe essere altrimenti, forme di sospetto nei riguardi degli uomini.

L’altra faccia della violenza: quella psicologica o stalking.
Esiste un tipo di violenza che, pur non arrivando alla violazione fisica del corpo di un’altra persona, riveste un’enorme importanza per la vastità del fenomeno e per gli effetti negativi che ha sulla psiche della vittima. Pur essendo considerata meno sconvolgente dello stupro, in realtà evidenzia una forma non trascurabile di discriminazione sessuale. Avviene preferibilmente negli ambienti di lavoro dove il contatto obbligato favorisce l’azione. La tecnica non è univoca ma si fonda principalmente con due diversi modi. Nel primo caso la richiesta è palese; in altri casi non c’è una richiesta specifica, ma il “violentatore” cerca di instaurare un gioco fondato sull’ambiguità e sul “far capire – senza dire”. In quest’ultimo caso esiste anche la vigliaccheria di avere sempre la possibilità di tirarsi indietro, “cadendo dalle nuvole”, in caso di non disponibilità, o reazione, da parte della vittima. Questo tipo di molestia è possibile che avvenga tra colleghi, ma l’azione è facilitata, e quindi più frequente, quando esiste un rapporto di dipendenza contrattuale. La
disoccupazione e la conseguente ricerca disperata di un posto di lavoro ha, in questi ultimi anni, favorito il dilagare di questa piaga sociale. In passato questo fenomeno veniva quasi esclusivamente descritto come prassi abituale per fare carriera nel frivolo mondo dello spettacolo: la giovane, ma piacente sconosciuta, se voleva l’apparizione (poco più di una comparsata) nel film di successo doveva mostrare le sue “qualità” al regista oppure al produttore. Invece oggi, di questo tipo di violenza esistono migliaia di casi al giorno. Molto subdola all’inizio si presenta sotto forma di sentimenti diametralmente opposti alle vere intenzioni. La vittima designata viene circuita con fare ammaliante e soggiogata da svariate promesse per migliorare la situazione lavorativa. L’accordo tacito è quello di mostrare un po’ di gratitudine e essere accondiscendente. Non sempre l’azione è mirata a contropartite sessuali, ma esistono le più svariate forme di gratificazione. C’è il titolare
d’azienda che vorrebbe avere la segretaria sempre pronta al sorriso, disponibile ad ascoltare i suoi problemi e sempre in piena forma da mostrare ai suoi clienti come una bella pianta d’arredamento – deve spettare a lui naturalmente il compito di “curarla e innaffiarla” – il lavoro passa in secondo piano e il vero intento è quello di coinvolgerla sempre più nelle proprie cose personali. Inconsciamente la segretaria diventa una sorta di specchio sulla quale investire le frustrazioni legate alla propria insicurezza di fondo fino a quando, ed è la fine, la vittima non mostra di essere animata e fornita di “bagaglio pensante”. Nel migliore dei casi viene collocata ad altro incarico, più
frequentemente licenziata. La “donna/pianta da accudire” deve essere bella e fiorita solo per il suo capo, guai se dona il proprio profumo ad altri, la collera e la gelosia potrebbero innescare anche forme di cattiveria e ritorsioni.

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Arte visiva e psicologia nelle fiabe: Wassily Kandinsky – Il Cavaliere azzurro. Olio su tela 55 x 60 – 1903

di ANGELO RUSSO-

VITERBO- Il 15 ottobre 2023 si è celebrato il centenario della nascita di Italo Calvino, scrittore poliedrico quanto geniale, tra l’altro autore delle Fiabe Italiane (1956). Le fiabe sono state un punto di riferimento anche per grandi artisti. Wassily Kandinsky prima di dedicarsi all’astrattismo, nella fase precedente, anteriormente al 1910, ha dipinto alcune opere dedicate alla Fiabe, storie provenienti dalle tradizioni contadine russe che l’artista seppe genialmente recuperare alla modernità e alla pittura, dandone una connotazione fantastica sia nel segno che nel colore. Una di queste opere è “Il cavaliere azzurro”. In particolare Kandinsky era affascinato dalla figura dei cavalieri che per combattere il male affrontavano le prove più ardue e i pericoli più spaventosi: essi sono quindi il simbolo della lotta fra bene e male, della battaglia dello spirito contro il materialismo. L’artista prende spunto da storie di vita reali, racconti contadini, per portarle nella metafora simbolica nel suo mondo pittorico.

A proposito di fiabe, in questi giorni a Vetralla, c’è stato un bellissimo evento dedicato al centenario della nascita di Calvino, denominato “Le Fiabe sono vere”. I concetti di base possono configurarsi analoghi alla pittura pre-astrattista e figurativa di Kandisky.

L’evento si è svolto con successo con una mostra dell’artista Lidia Scalzo dedicata alle fiabe italiane e un convegno proprio sui temi dell’opera calviniana. Lidia e la sorella Rosaria gestiscono la bottega d’arte “Il papiro art” a Cura di Vetralla.

La mostra racconta molto dell’infanzia dell’artista con suo nonno Mauro narratore. I quadri, volutamente fanciulleschi per essere recepiti da bambini ed adulti, rappresentano secondo l’autrice, una parte di valori per lei molto importanti, valori che sono stati trasmessi anche attraverso le fiabe.

LA FATA MADRINA – LA FATA BELLA E TERRIBILE  

Vogliamo parlare di FATE… 

Questi esseri incredibili, queste DONNE, ognuno di loro diverse: Materne, Terribili, DONNE 

Possono essere tenere ed amorevoli.  

Insomma esaudiscono i nostri desideri pur di vederci “felici”, ma possono essere terribili quando non vengono rispettate.  

Non è questione di forza è VITA. 

Si possono presentare in molteplici aspetti agli occhi di chi li desidera, possono essere vecchiette, lacere, sporche, POVERE, bellissime, tremende …ma sempre DONNE 

Pregi o difetti non importa … siamo     FATE 

 

Lidia Scalzo

autrice anche dei 2 quadri sulle fate. Supporto ligneo (50 x 160 cm.)

in mostra presso il museo della Città e del territorio a Vetralla il 4 e 5 novembre

 

 

 

Il convegno, LE FIABE SONO VERE si è svolto nella sala consiliare del Comune di Vetralla, dove l’Amministrazione capitanata dal Sindaco Sandrino Aquilani è sempre sensibile a tutto ciò che è arte e cultura.

Era presente al convegno l’Assessore alla Cultura Daniela Venanzi. Relatori: oltre al sottoscritto, Lidia Scalzo, Andrea Natali, Stefano Donati e, ospite d’onore, Paola Vegliantei presidente della Prima Accademia della Legalità nel mondo. Moderatrice Antonella Frontoni Presidente del Movimento Artistico Vetrallese.

Le favole da un punto di vista psicologico.

Nel linguaggio comune, c’è qualcuno che non ha mai sentito dire: “ …mi stai raccontando favole? Inteso nel senso di prendersi gioco dell’interlocutore, di dire bugie, frottole…

D’altra parte c’è un’immensa quantità di letteratura che prende sul serio le fiabe, parliamo in particolare di Italo Calvino che ci lascia una grande eredità di racconti e in più, aggiungendo la potente affermazione: “Le favole sono vere”.

Nel caso della fiaba/favola/frottola è logico che non è credibile che ci siano draghi volanti con tanto di ali oppure che una bestia si trasformi in un bellissimo principe semplicemente per mezzo di quella energia vitale che è l’amore. Certo ci piacerebbe!

Per Calvino le favole sono vere in quanto rappresentano un catalogo simbolico delle vicende umane, spaccati di vita che nascono in tempi remoti e vengono tramandati fino ai giorni nostri, con la possibilità di darci spunti per intravedere i propri destini.

Calvino intravede nelle favole il veicolo di valori profondi come ORDINE e ARMONIA che la narrazione fiabesca tende a ristabilire. Le vicende della sorte, il mito dell’eroe, sono equilibratrici e ribaltano l’elemento irrazionale e grottesco. La fiaba diventa una sorta di “fidata consigliera” (Concetto espresso da Bruno Bettelheim, psicoanalista austriaco naturalizzato statunitense (1903-1990).

Anche Jung, seppur con altri punti di vista era interessato alle fiabe, intese come pura ESPRESSIONE DELL’INCONSCIO COLLETTIVO. Esso contiene gli ARCHETIPI ovvero simboli che si manifestano in tutti i popoli e in tutte le culture.

Per inconscio collettivo si intende un deposito delle esperienze dell’umanità presente in ogni singolo individuo. Un contenitore psichico universale, quella parte di inconscio che è comune a quello di tutti gli esseri umani.

Immaginiamo una palazzina a più piani: dove c’è un piano terra e poi altri piani interrati. Il piano terra rappresenta la parte abitata, la luce dove tutto è cosciente.

Poi scendiamo attraverso una scalinata nel piano sotto suolo, una stanza dove c’è del materiale rimosso, prodotto nella prima infanzia, è un materiale spesso doloroso, personale e formato da traumi. Per questo che viene relegato senza che abbia molte possibilità di arrivare alla luce.  Questo materiale secondo il papà della psicoanalisi Sigmund Freud è l’Inconscio. Questa stanza non ha chiavi pertanto ogni tanto affiora qualcosina al piano soprastante, poi riscende e ci lascia una flebile traccia di qualcosa che non comprendiamo Se scendiamo un altro piano troveremo materiale sempre familiare, qualcuno l’ha chiamata la stanza dei nonni, ovvero materiali che rimandano alle nostre origini personali, da dove proveniamo.

Infine, e qui si deva a Jung, lo psicologo del profondo, l’archeologo dell’anima, questa rivoluzionaria intuizione: L’INCONSCIO COLLETTIVO. Immaginiamo che questa casa si trovi situata a Viterbo uno dei luoghi medioevali per eccellenza, nella terza stanza potremmo trovare dei reperti archeologici, come è successo realmente nei famosi butti, reperti medioevali, questo materiale è patrimonio non solo del possessore della casa ma di tutto l’universo ed è conosciuto da tutti. L’inconscio collettivo è formato da esperienze che si tramandano di generazione in generazione.  Queste esperienze o configurazioni sono dotate di struttura universale e hanno una valenza affettiva universale che Jung definì, come già detto, archetipi. In questa parte della casa troveremo anche le favole le quali sgorgano direttamente dagli strati più arcaici della psiche.

L’archetipo nella psicologia analitica Junghiana è un processo psichico che esprime i modelli elementari di comportamento e rappresentazioni derivanti dall’esperienza umana e mettono in connessione il mondo conscio e quello inconscio utilizzando il linguaggio universale dei simboli. Questi materiali del sottosuolo (inconscio) possono essere resi coscienti attraverso i sogni, le psicoterapie e/o anche strati alterati di coscienza, come l’ipnosi o alcune forme di training autogeno.

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Amore in Analisi e gli amanti di Renè Magritte

di ANGELO RUSSO-

VITERBO- Gli artisti in tutte le epoche hanno rappresentato nelle loro opere d’arte le varie forme d’amore: passionale, platonico o addirittura, come nel caso di Magritte, nei confronti di donne impossibili. L’opera più significativa in questo contesto è sicuramente Les Amants del Belga Renè Magritte tra i maggiori esponenti del surrealismo. Gli amanti è un dipinto che risale al 1928 realizzato con la tecnica dell’olio su tela. Nella tela i due soggetti sono attratti fino a baciarsi, ma il contatto fisico, che esprime amore, affetto, passione, in questo caso è bloccato dal panneggio che copre i due volti, come un diaframma che non rende possibile il contatto. Esistono due versioni del dipinto, entrambe datate 1928; la prima nella National Gallery of Australia, mentre la seconda è la più celebre, che vede i due amanti guancia a guancia sempre col volto coperto, si trova al MoMA di New York.

Non è facile capire l’amore, è più semplice descriverlo nelle sue varie manifestazioni. Questo sentimento, oltre ad essere un grande mistero è un fenomeno complesso e differenziato: l’amore per i figli e per i genitori, l’amore fraterno, l’amore per se stessi, per la patria, oppure l’amore erotico. Ci piace ricordare, tra tante definizioni, alcuni concetti espressi da Fromm: l’origine amanti di Renè Magritte. (1)dell’amore va ricercato nella solitudine e nella separazione. È soprattutto dare non ricevere. Per questo autore l’amore erotico si distingue dagli altri perché è esclusivo e non universale. Le componenti principali sarebbero la premura, la responsabilità, il rispetto, la conoscenza e la libertà. L’amore non è solo un sentimento, o esclusivamente sensazioni, ma è una scelta, una promessa, un impegno, un atto di volontà.
Questa tipologia d’amore è anche una tra le più discusse in letteratura. In questo articolo, l’argomento verrà trattato con una modalità particolare: immaginate un personaggio maggiorenne, di un’età indefinita, non importa se maschio o femmina, che si chiama “Amore” e che, per varie frustrazioni, va dallo psicanalista.
PERSONAGGI:
Amore.
Psicoterapeuta.
Amore: Seduto o seduta? ( E’ lo stesso, trattasi di sesso indefinito) di fronte al Terapeuta, con approccio vis a vis.
Amore: (con tono drammatico) Non ne posso più! Dicono che ormai sono soltanto capace di dare dolore. Eppure le premesse c’erano tutte. Ero il massimo del romanticismo e i poeti facevano a gara per parlare di me. Era veramente bello sentirsi al centro dell’attenzione, coccolati e vezzeggiati. Certo le palpitazioni le procuravano anche allora, ma venivano considerate “dolori di gioia”. Oggi sembra che dispensi solo ulcere e gastriti.
Psicoterapeuta: Certo deve essere frustante sentirsi in crisi dopo aver fatto gioire centinaia di generazioni.
Amore: Sì, ma ormai è un bel pezzo. Dovrei averci fatto l’abitudine e…invece………… Pensi che perfino il giorno della mia festa, per S. Valentino, non riesco a sollevarmi. Mi sembra tutto…..come dire…….consumistico. E poi perché intitolare la festa degli innamorati proprio a questo Santo. Valentino era un cristiano che fu decapitato dopo essere stato torturato dai romani nel 269. Chi più di lui può aver provato il dolore, quindi festa degli innamorati o dei sofferenti?
Psicoterapeuta: Non deve essere facile vivere con questo dubbio. In fondo si tratta di scegliere tra due atteggiamenti diametralmente opposti.
Amore: E’ vero, ma più ci penso e più la bilancia sembra pendere da una parte. Quella della sofferenza. Appena coinvolgo due persone con il mio sentimento questi non si riconoscono più. Gli amici vengono messi da parte, Alberoni, il sociologo dice che inizia una rivoluzione a due. Ma una rivoluzione non è mai pacifista è nella sua natura essere dirompente. Inoltre c’è chi dice che le persone, appena innamorate, si comportano da perfetti “imbecilli” nella migliore delle ipotesi, in quella peggiore, pare che si attivi perfino la violenza: ormai è storia che molti innamorati, solitamente maschi, hanno ucciso la persona amata, solo perché non coinvolta quanto loro. In qualche caso si è giunti perfino al suicidio. Si può diventare violenti. Violenti e dipendenti. Mi sento in colpa.
Psicoterapeuta: Da quello che dice sembra che dia ragione a quegli studiosi che pensano che Lei sia quasi una forma di tossicodipendenza e che dia, come le altre droghe, assuefazione e perfino crisi di astinenza.
Amore: (Con stizza) Mi verrebbe voglia di dire che sta dicendo tutte balle, e che forse è lei che ha bisogno di una terapia, ma ormai mi sento allo scoperto…. e allora andiamo fino in fondo, anzi dirò di più, all’inizio gli innamorati si accontentano di me a “piccole dosi” poi la voglia cresce e non basto mai. È come una droga. È proprio come la crisi d’astinenza. Si può star male fino ad essere ridotti come stracci, possono venire i brividi, ad anche il vomito. Altro che rose e fiori.
Psicoterapeuta: Senza voler necessariamente scomodare Darwin, non pensa che in fondo se Lei non esistesse, non avremmo più neanche la sicurezza della conservazione della specie?
Amore: (divertendosi) Questa è bella. Lo trovo veramente comico, mi scusi la mancanza di rispetto, ma non riesco a trattenermi dal ridere a pensare che la natura abbia giocato questo brutto scherzo all’umanità. Trovo invece interessante la teoria del suo illustre collega – psicologo, Lawrence Casler.
Psicoterapeuta: Dal modo in cui risponde, non si può certo dire che questi argomenti non le stiano a “cuore”.
Amore: è ovvio che sappia tutto su quanto scrivono di me, e questo Casler, parlando del sesso, incuriosisce veramente, e non solo me. In fondo il sesso è importante, lo sappiamo tutti. Anche Freud lo ha scritto. Ma torniamo a Casler, potrebbe anche avere ragione quando afferma che la colpa è tutta del sesso. Secondo questo autore le persone hanno istintivamente il desiderio di stimolazioni sessuali, ma nello stesso tempo le vivono, specialmente gli occidentali, come tabù. Allora occorre trovare un “sotterfugio”, una scusa. E chi meglio di me per ottenere questo scopo? Le persone tendono a giustificare di provare piacere con il fatto di essere innamorate. Mica male per superare, in una sola volta, tabù e sensi di colpa.
Psicoterapeuta: Lei si deve sentire molto importante per l’umanità, in fondo il suo ruolo è di essere sempre al centro dell’attenzione. Deve essere dura essere messi in discussione.
Amore: è un modo sottile per dire che sono narcisista? Guardi che si sbaglia il narcisismo è tipico del mio parente, “Innamoramento”. Lui si che è egoista. Il suo motto è: sto bene quando la/lo vedo, mi fa’ palpitare il cuore, mi fa star bene, mi gratifica, mi appaga. Lo vede? È sempre tutto accentrato su se stesso, sul suo piacere. Amare, al contrario, è il piacere di donare, condividere, sia le gioie che, direi soprattutto, i dolori. Star male perché sta male la persona amata. Questo sono io: Amore. E poi sa cosa che le dico? Sarà anche consumistico, e mi contraddico, ma visto che è Natale ho una gran voglia di fare un dono a chi amo. Mi scusi se la lascio un po’ prima dell’orario stabilito.
Psicoterapeuta: sembra una fuga. Ne vogliamo parlare?..
Amore: Sarà come dice lei, ma essere lunatici fa parte del mio carattere. Ne riparleremo. Magari quando torno, a febbraio. (Sorridendo) Per S. Valentino.
Psicoterapeuta: (Silenzio)

 




Adolf Hitler e l’ambizione di diventare un grande artista, psicologia del dittatore

di ANGELO RUSSO-

VITERBO- L’ambizione del giovane Adolf Hitler era quella di diventare un pittore famoso. Per ben due volte, nel 1907 e nel 1908, il ragazzo fu bocciato all’esame di ammissione presso l’accademia di belle arti di Vienna. Aveva 18 anni. Pur avendo talento possedeva una impostazione molto rigida del disegno e troppo ancorata all’architettura tanto da lasciare meno spazio all’inventiva e alla creatività. La doppia bocciatura, che tarpava le ali alla sua ambizione gli creò una enorme frustrazione. Il suo complesso d’inferiorità tendeva ad incrementarsi sempre più. Successivamente Hitler visse in modo solitario, chiuso agli affetti e con forti spinte narcisistiche. Abitò a lungo in un dormitorio pubblico vendendo qualche disegno prevalentemente a commercianti ebrei, ai quali doveva loro la sua sopravvivenza. Allo stesso tempo maturava nei loro FOTO 2confronti un odio, probabilmente misto ad orgoglio, per la compassione che riceveva. Secondo quanto pubblicato dal Libro Blu, pare che nell’agosto del 1939, cioè nei giorni caldi che precedettero lo scoppio del secondo conflitto mondiale, Hitler disse all’ambasciatore britannico Neville Henderson “Io sono un artista e non un politico. Una volta che la questione polacca sarà risolta, voglio finire la mia vita come un artista.” Sono centinaia le opere lasciate da Hitler, alcune furono vendute all’asta dopo la seconda guerra mondiale, altre furono sequestrate dall’esercito degli Stati Uniti e ancora detenuti dal governo di Washington.
In questo contesto, arte e psicologia, trovo interessante approcciare a questa storia per ipotizzare le dinamiche che possono influire in modo significativo alla “nascita” di un dittatore.
Un leader, per essere tale, deve possedere una personalità con delle caratteristiche peculiari. La psicologia sociale in diversi studi ha evidenziato almeno tre componenti: “la capacità” (intelligenza, facilità di parola, conoscenza specifica); “la socievolezza” (partecipazione sociale, coopera e popolarità); “la motivazione” (iniziativa e perseveranza). L’autorità in questo contesto è sostituita dall’autorevolezza, che può essere definita una modalità di relazione più rispettosa ed empatica, soprattutto maggiormente efficace. D’altra parte, la storia insegna, non sempre i “capi” sanno farsi rispettare mantenendo contemporaneamente la stima e l’ammirazione del gruppo che li segue. Alfred Adler il medico viennese, inizialmente allievo di Freud e successivamente fondatore della “psicologia individuale comparata”, in antitesi col maestro – Adler fu il secondo importante dissidente delle teorie freudiane, l’altro fu Carl Gustav Jung – impostò la prima dottrina psicodinamica con impostazione sociale. Adler fu il primo ad individuare e quindi a descrivere un sentimento d’inferiorità naturale evidenziabile nelle prime fasi di vita del bambino e nello stesso tempo, in modo ambivalente, l’aspirazione dello stesso a voler dominare. Da questa forte ambivalenza, secondo Adler, nasce il bisogno di superare la propria, frustrante, inadeguatezza. In alcuni casi la difficoltà a superare tale sentimento può essere la causa dello sviluppo di un vero complesso d’inferiorità. Va ricordato che l’aspetto fisico e la salute precaria sembrano avere influito sul suo pensiero: Adler era di bassa statura, e soffrì di rachitismo.
L’uomo, poco incline alla rassegnazione e alla sofferenza, adotta attraverso la propria psiche tutte le difese necessarie a sfuggirle, e può attivare delle mirate compensazioni. Queste azioni difensive, che potremmo definire vere e proprie “escamotage”, possono essere armoniche e non pregiudicare i rapporti con gli altri, oppure nel caso più nefasto, disturbanti fino alla patologia, rendendo l’individuo antisociale. Alcune persone, con un “genio” particolare compiono una supercompensazione, utilizzando le proprie qualità per spingersi oltre la semplice neutralizzazione dell’inferiorità, ponendosi delle mete ambiziose e cercando di sovrastare gli altri. Questi individui, attingendo con ingordigia dal proprio narcisismo, solitamente abnorme, strutturano un ulteriore complesso: quello di superiorità. A tal punto, colti da forme deliranti d’onnipotenza, questi soggetti, si spingono alla ricerca disperata di potere e gloria, incuranti purtroppo dei sentimenti e dei bisogni degli altri. Questa dinamica sembra essere alla base della personalità disturbata dei dittatori. Per avvalorare maggiormente questa tesi è utile descrivere alcuni aspetti e relazioni interpersonali di grandi dittatori del passato.
Adolf Hitler incarna sicuramente un valido soggetto di studio. Il piccolo Adolf, secondo le biografie, aveva un padre rigido ed autoritario in casa, quanto disposto a lasciarsi andare nelle relazioni extra familiari agite principalmente nelle taverne. Un modello che incarnava quella virilità dominatrice che era fonte di tendenze alla ribellione da parte del figlio. La madre di Adolf era la terza moglie del padre. Quest’ultimo aveva pianificato per il figlio un futuro da funzionario. Adolf con dei sentimenti ambivalenti, da una parte era portato ad imitare il padre, che era un ufficiale doganale del Ministero delle finanze, e dall’altra a differenziarsi da lui. Il giovane in cuor suo aveva l’ambizioso progetto: diventare un pittore famoso ed affermato. Tutta la vita di Hitler è permeata dall’ambivalenza; pur essendo renitente alla leva, nei confronti dell’Austria, si arruolò volontario in occasione della prima guerra mondiale nell’esercito del re di Baviera. Dopo la sconfitta, con un misto di rabbia, prese corpo l’idea paranoide che quella Germania potesse rappresentare la razza eletta destinata a dominare il mondo. Tutti sappiamo l’epilogo di questa storia che ha, nel contesto della psicopatologia, un grande valore dimostrativo.

 




La gelosia anche nell’arte: dipinto di Edvard Munch

di ANGELO RUSSO-

VITERBO-  La gelosia, ovvero quel sentimento devastante che riesce ad annebbiare la vista in un crescendo di emozioni e sensazioni fino ad arrivare, nella forma più esasperata, a sperimentare tratti che sono assimilabili alla paranoia. Nell’arte un esempio di questo sentimento, che in casi estremi è molto vicino alla patologia, è nell’opera di Edvard Munch (1863 – 1944), è un dipinto su tela ed è denominata Sjalusi (Gelosia, 1895 – olio). L’artista norvegese, noto principalmente per i suoi dipinti, in realtà si occupò anche di grafica e di fotografia. La sua opera più conosciuta è “l’urlo” diventato anche una icona nell’arte. Munch, perseguitato sin dall’infanzia dalla malattia era terrorizzato al pensiero di ereditare dei tratti familiari inerenti alla sua salute mentale. Nel quadro, gelosia, l’autore ritrae le sue fantasie che, in modo erotico e ambiguo narrano del sentimento di cui è pervaso. La scena ritrae tre personaggi: la figura maschile in primo piano sulla destra, con lo sguardo allucinato e la faccia sofferente, ha una netta somiglianza col pittore, che pur avendo tratto ispirazione da un fatto di cronaca nera all’inizio del XIX secolo, un omicidio passionale, con una sorta di immedesimazione ritrae la sofferenza nel viso per la scena in secondo piano, dove una donna riceve palesemente delle attenzioni di un ipotetico spasimante. L’infelicità di non essere corrisposto segna, deformandolo, il volto in primo piano.
Ma perché si è gelosi?
Quali sono i pensieri che nutrono questa condizione esasperata?
Prendo spunto da una storia vera nel tentativo di spiegarne le dinamiche psicologiche.
Annamaria esordisce così: sono veramente stanca. Poi come un fiume in piena racconta il suo disagio: ho trentacinque anni, sono sposata da due, mio marito ha dieci anni più di me e tra noi da un po’ di tempo c’è un problema: la sua gelosia. Certo un po’ di “sana” gelosia nel matrimonio non guasta, potrebbe anche far piacere, ma ciò che sto subendo è vicino all’incubo. Eppure non ho innescato nessun motivo per far ingelosire mio marito, non l’ho mai tradito e neanche ho intenzione di farlo ma, se continua così, la vita di coppia sta diventando insopportabile. Mi rovista nella borsa, controlla il telefonino, legge i miei messaggi. Non so come faccia ma ci riesce anche attraverso quella “diavoleria” di internet. Mi sento spiata. Spesso mi chiama al lavoro senza un vero motivo, dice di volermi salutare, ritengo sia un controllo. Verifica i tempi di percorrenza dal lavoro a casa. Scruta i miei sguardi quando siamo in pubblico e non è mai rilassato. Ho provato a parlarci, cercando di affrontare l’argomento, ma le sue affermazioni sono una serie di scuse irrazionali. Dice di essere geloso e sicuro che lo sto tradendo oppure che sono in procinto di farlo. A nulla valgono le mie ragioni, anzi le interpreta come se volessi giustificare il mio comportamento che, ovviamente per lui, è da fedifraga. Non credo di meritare tutto questo, ancora lo amo e vorrei che non fosse così ma è difficile andare avanti in questo modo.
La storia di Annamaria non è poi tanto singolare, in tante coppie la gelosia è uno dei sentimenti, dominanti.
Anche ammettendo che un pizzico di gelosia sia il pepe dell’amore, in questo caso siamo alla persecuzione. Occorre distinguere fra gelosia “normale” da quella “patologica”. La gelosia normale è insita nell’amore che si ha il partner, ed è spesso presente nella relazione di coppia. Anzi se non ci fosse si potrebbe dubitare di essere davvero innamorati. È anche un tratto piacevole perché fa sentire l’altro importante, veramente amato, come se mostrassimo la paura di perdere il nostro oggetto d’amore. E fin qui è piacevole. Quando si sconfina nel patologico la gelosia diventa morbosa e si avvicina molto alla paranoia. Gelosia e paranoia si compenetrano a vicenda. Nella coppia s’insinua un terzo incomodo: il sospetto. La paura di essere traditi non ha più nulla di razionale, diventa una vera ossessione, i pensieri reali lasciano il posto ai fantasmi della mente i quali, per essere prodotti, hanno bisogno solo dell’esistenza di un partner. Addirittura si arriva a “costruire” mentalmente l’ipotetico rivale. Il partner diventa l’oggetto da perseguitare e la sua infedeltà è una certezza. Le giustificazioni diventano solo alibi da essere smantellati. Chi è sospettato, invece, è facile che attivi, a sua volta una paranoia difensiva: sentirsi sempre sotto osservazione anche quando non lo è. Il rapporto può diventare un inferno e sconfinare anche in episodi delittuosi. Il comportamento paranoide, permeato da una massiccia dose d’ insicurezza, produce un profondo disagio: fa pensare di essere facilmente sostituibili. Tutti possono essere più abili, più seducenti, più affascinanti. L’autostima di questi soggetti è molto scarsa. Le origini di questo tratto ossessivo, vanno ricercate principalmente nella propria infanzia e, come spesso accade, in una cattiva relazione che il geloso ha instaurato con i propri genitori. Questi ultimi potrebbero non aver adeguatamente rinforzato il bambino nella fiducia per sé stesso che sarà cresciuto senza essere pienamente cosciente delle sue possibilità. Il geloso paranoico, tende anche ad essere poco comunicativo, essendo troppo bloccato sulla propria ossessione. Sempre a caccia d’indizi è perennemente alla ricerca di prove con la finalità di poter dire: “visto che avevo ragione?” Questo soggetto difficilmente ammetterà di aver torto, sarebbe come riconoscere quell’insicurezza origine dei suoi guai. È più facile che il dolore, l’inadeguatezza, vengano attribuiti ad altri, proiettata all’esterno. E il partner è proprio lì, a portata di mano. In questi casi quando, nonostante tutto, c’è ancora amore e si vuole salvare la relazione di coppia una delle cose importanti da fare potrebbe essere l’estremo tentativo di ripristinare una comunicazione corretta. Anche se non è facile scardinare meccanismi che lavorano inconsciamente da molti anni. Una psicoterapia potrebbe aiutare il geloso paranoide anche se la grande difficoltà è di fargli ammettere di avere il problema. Il partner, ancora innamorato e desideroso di salvare la relazione, potrebbe fare un tentativo: considerare che gli atteggiamenti paranoidi non siano del tutto consapevoli e che il primo a star male è proprio chi li prova. La “medicina” è l’amore. Continuare ad amarlo, comunque, per il resto della sua personalità. Un simile atteggiamento mitigando la morbosità potrebbe rappresentare il viatico per una convivenza più tranquilla. Il condizionale potrebbe è d’obbligo.

Edvard Munch Gelosia, 1895 – olio

 




Tra l’arte e l’erotismo: ecco a voi la pubblicità

di ANGELO RUSSO-

VITERBO- Anche l’arte è stata presa in prestito per condizionare all’acquisto di prodotti, perché di condizionamenti si tratta. La pubblicità attraverso induzioni psicologiche cerca di motivare il comportamento del consumatore. A questo proposito tanti pubblicitari per aiutare il committente a vendere il prodotto hanno utilizzato delle immagini che, spesso in modo subliminale, possano far presa soprattutto nella parte inconscia del consumatore, con effetti di persuasione più profonda. Utilizzare opere d’arte per commercializzare un prodotto è stato un passaggio assai semplice, basti pensare che gli artisti, nel corso dei secoli, con le loro immagini, già promuovevano messaggi quando ancora la pubblicità non era ancora stata inventata, attraverso la denuncia sociale, il dissenso o la protesta. E nel contempo oggi utilizzare le opere di artisti famosi come la Gioconda diventa proporre una immagine perfetta perché essendo uno dei quadri più famosi in tutto il mondo, è immediatamente riconoscibile da chiunque. Le cose “già viste” vengono incamerate più facilmente delle immagini sconosciute.
Liscia, Gassata o Ferrarelle? Ed ecco la Gioconda di Leonardo da Vinci, realizzata intorno al 1503-1504, a fare da promoter per l’acqua minerale.

MC DONALDSPer difendersi dagli attacchi che furono rivolti ai suoi prodotti McDonald’s lanciò una campagna ispirata al Martirio di San Sebastiano con il Dipinto di Andrea Mantegna del 1480.

Pubblicità del profumo da uomo “Lolita Lempicka” ispirato palesemente alla famosa opera di Klimt. Il bacio fu realizzato tra il 1907 e il 1908 qualche anno dopo che il pittore austriaco era stato in Italia dove poté ammirare i mosaici bizantini di Ravenna.

Oltre all’arte cosa poteva far presa sull’inconscio delle persone se non l’erotismo.

Bionda, seminuda nel letto. Il lenzuolo strusciato ad arte erotica in mezzo alle gambe, movimenti che rimandano chissà a quali piaceri… Chi guarda pensa a scene televisive da fascia protetta mandate in onda per sbaglio quando, come per magia, spunta fuori dalle lenzuola una bottiglietta di profumo. La voce suadente fuori campo invita all’acquisto. Piccolo passaggio propedeutico per avere il successo assicurato. Sono anni che la pubblicità ricorre all’erotismo.

Ecco alcuni esempi del passato:

Quale è la parte anatomica più adeguata al fine di pubblicizzare un orologio? Semplice, direte voi: il polso. Macché! Cosce e seni da capogiro e non vi azzardate a rubarle l’orologio che quella bellissima indemoniata si “incazza” come una bestia e vi sfascia l’auto.

Che dire di quel primo piano sul “fondo schiena” di una certa Roberta? Sarà pure una bella mutandina, ma chi la vede! La distrazione è giustificata…

MOSAICIUn asciugamano a mo’ di foglia di fico, sul disinvolto modello. Bicipiti, quadricipiti, pettorali, addominali. Tutto in bella mostra: sono per l’uomo che non deve chiedere mai.

C’è quell’altro che invitato ad incontrarsi con lei, mozzafiato, stasera (bontà sua) non ha fame. Ambiguamente di sesso. Ovvio.

Vogliamo parlare di gelati? Bocche avide nell’intento di leccare, mordicchiare, assaporare di tutto e di più: cremini, cornetti, incappucciati al cioccolato, alla vaniglia alla frutta, a qualsiasi sapore purché confezionati con messaggi subliminali (nascosti).

Come già detto la pubblicità affida spesso l’efficacia della comunicazione non solo agli elementi manifesti di superficie, ma anche alla suggestione di componenti simboliche che possono non essere percepite a livello consapevole, ma che agiscono in forma inconscia e subliminale. Sembra proprio che il ricevente sia facilitato ad acquisire i messaggi quando il contenuto è a carattere sessuale. Forse così si spiega tanta sessualità nelle immagini pubblicitarie con l’intento di catturare l’attenzione dei consumatori.

Importante è vendere! È questo, probabilmente, il ragionamento delle ditte produttrici.

Degrado Sociale! Violenza della pressione pubblicitaria! Obietteranno in molti.

La risposta a chi legge.

L’induzione subliminale al cinema. (Vietata dalla legge)

Qualche anno fa, in America, la notizia fece scalpore: le persone uscivano in massa da un cinema e si precipitavano a bere, come assetati, nel chiosco vicino. C’erano bibite fresche per tutti i gusti. La stranezza è che tutti avevano sete nello stesso momento.

Ecco la spiegazione. Un’immagine per essere percepita dall’occhio a livello cosciente, ha bisogno di 24 fotogrammi il secondo (ecco perché se provate a guardare controluce la pellicola di un film vedrete la stessa immagine ripetuta più volte). Il subconscio, (parte automatica ed interiore della nostra personalità, sfugge alla consapevolezza ma funge da volano per molte azioni) riesce, senza che ce ne rendiamo conto a percepire tutti i fotogrammi uno per uno. Con soli 23 fotogrammi in un secondo anziché i 24 richiesti l’immagine viene comunque percepita. Ecco spiegato il trucco della sete: nel 24° fotogramma di ogni immagine veniva sostituita la scena con una scritta che rimandava in modo induttivo ad aver sete, non percepibile dall’occhio ma, letta inconsapevolmente dal subconscio, per migliaia di volte durante il film. La potenza della suggestione indotta faceva il resto.




“Il mito di Narciso” tra arte e psicoanalisi

di ANGELO RUSSO-

VITERBO – I racconti della mitologia greca hanno una caratteristica fondamentale: sono scevri da ogni substrato moralistico. Forse anche per questo la psicoanalisi ne ha tratto spunto per coniare termini che rimandano a problematiche disancorate da falsi pudori. Tra le storie più conosciute troviamo quella di Narciso: Eco, ninfa dei monti, s’innamora perdutamentedi Narciso figlio del fiume Cefiso, ma non è ricambiata. Narciso sembra insensibile al fascino femminile, e vaga tra i boschi e le valli in una ricerca interiore senza speranza. Finalmente specchiandosi nelle acque chiare di una fonte trova qualcosa che appaga il suo desiderio: è travolto dall’amore per la propria immagine. Afrodite, dea dell’amore, non può approvare questo sentimento sicuramente atipico che contrasta con i suoi dettami, e punisce Narciso. Quest’ultimo morirà consumato dal dolore dall’insoddisfazione. L’obiettivo del suo innamoramento risulterà irraggiungibile. Nell’arte una delle opere più famose dedicate a Narciso è un dipinto a olio su tela (112×92) Narciso appunto attribuito al Caravaggio sebbene un dibattito ne abbia proposto NARCISOl’attribuzione ad altri autori.

Freud, nelle sue teorie, nel 1910, adottò il termine narcisismo. La dottrina classica di Freud considera il narcisismo come un investimento della libido (pulsione sessuale) sull’lo (la parte cosciente dell’apparato psichico) di conseguenza il rivolgimento della libido su sé stessi (nello stesso sesso). Questa tesi ha lasciato molti autori perplessi, considerando che molti omosessuali, in particolar modo maschi, mostrano un culto narcisistico del proprio corpo, ma spesso il loro interesse per il partner sviluppa tutta una serie di dinamiche di rapporto interpersonale come la tenerezza, la gelosia, la competizione, che sembrano di altra natura rispetto al semplice ripiegamento sullo stesso sesso. Appare chiaro che un ripiegamento di tipo narcisistico non favorisce l’autonomia e non consente quello sviluppo armonico di cui la personalità ha bisogno.  Anche se il mito greco ci rimanda ad un uomo, il narcisismo vale per entrambi i sessi.

Carla è una bellissima donna di 44 anni, il suo aspetto fisico rasenta ancora la perfezione, risultato di un lungo-continuo-estenuante trattamento centrato sul corpo a base di creme, massaggi e palestre. La sacralità somatica ha raggiunto in alcune manifestazioni dei tratti ossessivi: per non evidenziare le, pur lievi, rughe intorno agli occhi, Carla si è preclusa persino il sorriso aperto, tutto deve essere contenuto. La sua dieta è misurata e i cibi vengono costantemente selezionati. La ricrescita dei capelli bianchi, vissuta inizialmente come un trauma, viene occultata in modo sistematico. Carla appare agli altri come una incredibile armonia di rapporti estetici, eppure…oggi, inizia a vacillare, appaiono in lei i primi segni di depressione. Il suo, imminente, declino estetico può ancora essere corretto da interventi di chirurgia plastica, ma il futuro le appare nero. La sua fobia centrata sul corpo non le ha permesso di sperimentare altri modi di vivere che consentissero, attraverso i rapporti interpersonali, di dare un senso più creativo alla sua vita. Nella personalità di Carla è possibile evidenziare tutta una serie di tratti narcisistici. Sarà duro, faticoso e con l’aiuto dell’esperto, insegnarle a gustare il piacere di essere apprezzata per altre qualità che non siano essenzialmente estetiche. Occorrerà sensibilizzare in lei il piacere che si prova nel dare e non solo nel ricevere, disancorandola dagli stimoli negativi che probabilmente ha ricevuto nell’infanzia, e aiutarla a scoprire che si può migliorare la qualità della vita senza essere necessariamente ammirati.

Amare sé stessi oltre misura pone l’uomo di fronte ad obiettivi irraggiungibili associati a infelicità e frustrazione. Essendo l’uomo un essere sociale, sofferente nella solitudine, è facilitato a trovare la felicità nello sviluppo delle relazioni umane: l’amore, l’amicizia, il lavoro, la scuola, la famiglia.

(Nella foto di copertina il quadro è del pittore viterbese Pino Fochesato – olio su tela,  60 x 80 cm. anno 2021).

 




Arte e Tecnologia. Metaverso, ipotesi innovativa

di ANGELO RUSSO-

VITERBO- Siamo in continua crescita tecnologica. Il modo di pensare e le relazioni interpersonali vivono dei grandi cambiamenti: sono diminuite le sfumature e si tende alla semplificazione razionale come nella matematica binaria su cui si basa il computer. Viva la tecnologia! Sta cambiando il mondo. L’adeguamento al ritmo tecnologico sembra aver riattivato prepotentemente i concetti Darwiniani, mai del tutto sopiti, sulla selezione naturale della specie: chi non si adegua adattandosi all’ambiente soccombe. Anche nell’arte, terreno di tanti cambiamenti lungo il percorso della sua storia, non poteva mancare la tecnologia. Proprio in questi giorni dal 5 aprile al 23 luglio a Roma a Palazzo Cipolla è possibile visitare la mostra “Ipotesi Metaverso”.  La mostra è visitabile attraverso percorsi multisensoriali e multimediali – trasformano lo storico palazzo di via del Corso in un viaggio in cui lo spettatore alterna reale e virtuale, in una efficace combinazione di arte e di ‘mondi’. Un dialogo costante tra arte fisica e arte digitale è il filo condutture della mostra, un’innovativa e avanguardistica combinazione di opere che vanno dal barocco alla contemporaneità. Si mettono a confronto grandi artisti del passato con artisti del digitale.  Ideatore di questa mostra è il Prof. Avv. Emmanuele Emanuele Presidente della Fondazione Roma Terzo Pilastro che da 24 anni ha reso Palazzo Cipolla, a Roma in via del Corso, uno degli spazi espositivi più avanguardistici della Capitale.

Questo è il passaggio di una sua intervista riportata nel Web: “La tecnologia digitale, portando il futuro nel presente, sta cambiando il modo di vedere la realtà, intervenendo in modo incisivo nel nostro vivere quotidiano. Anche l’arte si è uniformata a questa coesistenza tra passato, presente e futuro.  La nuova mostra dal titolo Ipotesi Metaverso, permette di coniugare, attraverso il dialogo tra 32 artisti storici e contemporanei provenienti da tutto il mondo, la tradizione, che rimane un punto di riferimento imprescindibile, con il nuovo che avanza, con il mondo digitale, mediante l’apporto delle nuove tecnologie, le quali costituiscono una rivoluzione anche nella maniera di manifestare il sentimento che è da sempre alla base di ogni opera d’arte, in qualsiasi epoca”.

Su invito proprio del suo ideatore, Prof. Emmanuele Emanuele, il 4 Aprile scorso, ho avuto il piacere di essere presente alla inaugurazione di questo innovativo e affascinante evento. Con lo spirito di chi non disdegna di porre un occhio attento al nuovo che avanza nella consapevolezza che nell’arte moderna ci siano sempre stati punti di rottura col passato che hanno testimoniato i lori tempi e relativi periodi storici. Le avanguardie con il futurismo, il dadaismo e il surrealismo sono gli esempi più eclatanti. Basti pensare che senza questi movimenti non avremmo potuto apprezzare, solo per citare alcuni esempi, le opere di Marinetti, Carrà, Boccioni, Balla per il futurismo, Marcel Duchamp per il dadaismo o André Breton, Salvador Dalì, René Magritte, Juan Miró, Max Ernst per il surrealismo.

La mostra, tra l’altro, mi offre lo spunto per una considerazione: è difficile pensare oggi ad un qualsiasi lavoro senza l’ausilio dei mezzi informatici. Grazie alla modernità è possibile raggiungere traguardi impensabili fino a qualche decennio fa in tutti i settori.

D’altra parte, l’utilizzo smodato della tecnologia, soprattutto nel virtuale, potrebbe far vacillare, i rapporti relazionali “vis” a “vis”.

Un bel dilemma e una riflessione: la psicologia c’insegna che non esiste una felicità assoluta da conquistare, ognuno a suo modo deve costruirsi attraverso percorsi personalizzati “la formula” per essere soddisfatto della propria vita. L’era attuale, nonostante le oggettive difficoltà economiche per molti, è quella del consumismo sfrenato. L’Essere, descritto da Fromm, vacilla nei confronti dell’Avere. Lo slogan è: meglio tutto e subito.  In questo scenario, d’altra parte, come contrapposizione, si moltiplicano i seguaci delle religioni e delle filosofie orientali che mirano alla spiritualità e alla ricerca interiore, tutto molto bello ma, in alcuni casi, con la possibilità di abbandonare la realtà a discapito di una sete mistica dell’irraggiungibile.  Pur rispettando le scelte individuali, in linea di principio, l’essere umano tende più all’integrazione che all’isolamento. È importante che l’uomo guardi dentro sé stesso, ma il bisogno di solitudine deve mirare principalmente a ricavare le energie per capirsi meglio ed a relazionarsi in modo più attivo con gli altri. Le fughe dalla realtà, paradossalmente, quando non sono fine a sé stesse, e centellinata a piccole dosi, possono rappresentare il viatico per l’inserimento creativo nel mondo. È In questi spazi dell’anima che il più delle volte nasce l’opera d’arte.




Quando è l’inconscio a guidare la mano. La vera storia del “galletto” tra dadaismo e surrealismo.

di ANGELO RUSSO-

VITERBO- Questa volta, facendo un’eccezione, voglio raccontare un episodio che ho vissuto in prima persona. Tanti anni fa, oltre venti, mi trovavo a parlare con una amica per motivi di lavoro. Una bella donna di grande classe e avvolta da un fascino misterioso. Ciò che colpiva maggiormente di lei, oltre all’armonia delle sue forme, erano i suoi occhi neri e profondi che ammaliavano. Nell’insieme un gran fascino, sulla quarantina d’età. Sedevamo uno di fronte all’altro divisi da una scrivania. Mentre mi parlava, pur ascoltandola attentamente, con un gesto naturale presi un foglio di carta e iniziai a fare degli scarabocchi con la matita sul foglio bianco. Un’ abitudine che agivo molte volte anche quando parlavo al telefono, e che rimanda al disegno automatico, non quello descritto dai medium, ma un automatismo più simile a quello surrealista, dove l’elaborazione, soppressa dal controllo cosciente consente alla mente inconscia di essere predominante. Nulla di nuovo, abbiamo l’esempio dai dadaisti del primo novecento come Hans Arp, che rifiutavano la ragione e la logica con una poetica alternativa all’arte classica, oppure i surrealisti Masson e Breton, e tanti altri.  Il comune denominatore sempre lo stesso “puro e semplice automatismo psichico”.

La mia mano andava spedita. Guardavo lei e anche quello strano disegno che al di fuori della mia consapevolezza stava prendendo corpo. Mi accorsi che anche lei, la mia amica durante questo colloquio sbirciava sul quel foglietto ormai quasi riempito di righe per lo più sinuose alternate anche da altre forme estremamente spigolose.  Poiché non era un monologo appena iniziai a parlare, con naturalezza, accartocciai quel foglio all’apparenza privo di senso per gettarlo nel cestino. “No! Ma cosa fai non gettarlo!!!”.  La mia interlocutrice mi bloccò. Rimasi fermo con una parvenza di sorriso più da ebete che ammiccante e chiesi: “perché?” “Aspetta fammi guardare bene, ma non vedi cosa hai disegnato? Sembra uno strano gallo allo stato embrionale” In effetti guardandolo bene dissi: “hai ragione ha davvero la parvenza di un gallo, ma appena abbozzato, stilizzato.”  “Sarei curiosa di vedere se perdendoci un po’ di tempo magari venisse fuori qualcosa di bello.” Fu come una sfida, stirai con le mani le sgualciture e un paio di giorni dopo era nato “Il galletto” che si vede nell’immagine, un misto tra la grafica e la pittura, rivisitato e rielaborato con un po’ di mestiere, ma sull’imprinting dell’originale. Mi resi conto che a guidare la mia mano era stata quella parte che sfugge alla consapevolezza, come una trance, molto vicina all’ipnosi o all’autoipnosi.  Davanti ad una bella donna inconsapevolmente era venuta fuori quella sorta di gallismo che caratterizza i maschi, una sorta di corteggiamento inconsapevole, senza secondi fini apparenti, ma bagaglio innato del genere umano maschile. Il Gallo d’altra parte nell’inconscio collettivo, a memoria Junghiana, tra gli altri significati è anche simbolo di virilità, potenza sessuale e forza. A questa spiegazione psicologica, tra me e la mia interlocutrice che aveva fatto la domanda diretta sul significato, scoppiò una fragorosa risata. Quel galletto lo ritengo tra i miei disegni meglio riusciti.

Nella foto “Il Galletto” di Angelo Russo

 




Il sogno nell’arte ed i meccanismi che impediscono di ricordare i propri sogni

di ANGELO RUSSO-

Nel 1924, per mano di Andrè Breton, viene pubblicato un documento letterario che sancirà la nascita di un nuovo movimento artistico: il surrealismo. Il documento meglio conosciuto come “Manifesto” si basa su un concetto innovativo per l’epoca la cui descrizione è così sintetizzata: «Automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si propone di esprimere, con le parole o la scrittura o in altro modo, il reale funzionamento del pensiero. Comando del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale.»

Pur essendo Breton il capostipite di questa poetica, altri importanti artisti furono affascinati da questo modo di concepire l’arte: Salvador Dalí, René Magritte, Max Ernst, Joan Miró, Giorgio de Chirico e Francis Picabia. La via preferenziale che consente ai surrealisti di applicare questo innovativo concetto è il sogno. L’apparato psichico, attraverso l’attività onirica fa emergere l’inconscio prioritariamente attraverso i sogni e portandoli alla sfera cosciente senza inibizioni. Per poter attingere a questa miniera di creatività occorre però una condizione necessaria: ricordare i propri sogni. Questo è il dilemma di tante persone che vivono la frustrazione di non ricordare le immagini notturne mentre si dorme. Quali sono i motivi?

Tutti gli uomini sognano. L’attività onirica è necessaria alla mente come l’aria che respiriamo lo è per il corpo. Per quale meccanismo non sempre riusciamo a ricordare i sogni? Perché alcune persone si dicono sicure di non sognare affatto? Ci si può trovare al mattino, con delle sensazioni, dei flash che non riusciamo ad organizzare in pensieri definiti, come avere la sensazione di stare sul punto di ricordare ma…, è un attimo, poi tutto torna nell’oblio. Freud intuì che la conoscenza dell’uomo passa attraverso l’inconscio e il sogno è una delle vie preferenziali per accedervi, ma è difficile decifrarlo. In alcuni casi esiste una vera e propria rimozione. Carl Gustav Jung scrisse: Il sogno è un’auto-rappresentazione dell’inconscio espressa in forma simbolica (Opere, vol.8 p.282).

Una prima risposta c’è già nella premessa. Tutti sogniamo. Il fatto di non ricordare può essere correlato principalmente a due aspetti. Il primo è fisiologico: il sogno è in stretta connessione con le fasi R.E.M., mediamente 5 periodi, di pochi minuti per notte in cui il cervello produce le immagini oniriche. Svegliarsi lontano da queste fasi rende difficoltoso il ricordo del sogno. Se ci svegliassimo mentre stiamo sognando, probabilmente ci stupiremmo di trovarci nel nostro letto. Si potrebbe avere una reazione di questo tipo: “dove mi trovo; eppure mi sembrava di stare in un altro posto; che strano, erano delle immagini nitide a colori come in un film.”  Inoltre i sogni hanno anche la funzione di scaricare istinti socialmente inaccettabili, rimossi durante la veglia. Interviene, a nostra difesa, una sorta di censura, che impedisce di dare facile interpretazione allo sconveniente messaggio onirico In molti casi, infine, non si presta un’attenzione adeguata ai sogni, e per recuperarli potrebbe esser sufficiente prenderne coscienza e fare alcuni semplici esercizi di memoria.

Alcuni esercizi per favorire il ricordo del sogno.

Prendete un libro qualsiasi. Chiudetelo e guardate la copertina. Focalizzate le immagini, le scritte, i colori. Infine fatelo ruotare guardandolo da tutte le angolazioni. Chiudete gli occhi e provate a rivedere, nella memoria, il libro, in tutte le sue angolazioni focalizzando più particolari possibile. Provate questo esercizio con altri oggetti, considerate che è importante coinvolgere, oltre alla vista, anche il tatto e l’olfatto.

Provate ad immaginare una casa che vi è familiare. Prima di cominciare chiudete gli occhi e fate qualche respiro profondo. Concentratevi sulla vostra respirazione, “sentite” il vostro respiro mentre attraversa i polmoni, provate a visualizzarlo nel suo tragitto prima di essere espulso. Cercate di prendere coscienza del maggior numero di sensazioni corporee, cominciando dai piedi e salendo verso la testa. Dopo l’esplorazione del corpo visualizzate la casa che avete scelto. Entrate dal portone principale visionando tutti i dettagli dai materiali ai colori; tutti gli spazi, lentamente uno alla volta. Soffermatevi sugli oggetti, guardate in alto verso i soffitti e cogliete tutte le sfumature possibili. Immaginate come cambia l’ambiente con luci diverse. Dopo l’esplorazione totale della casa visualizzate la vostra uscita, riaprite gli occhi e riflettete per un attimo tra la coscienza delle immagini e quelle del “risveglio”.

È utile prima di coricarsi a dormire, munirsi di penna e quaderno da tenere sul comodino. Allenatevi a prendere appunti di tutto quello che vi ricordate al risveglio anche piccoli flash di sogno.

 Nella foto di copertinaSogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio è un dipinto surrealista di Salvador Dalí. Realizzato nel 1944 misura 51×41 cm. È esposto presso El Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid.




I disegni dei bambini e comunicazione

di ANGELO RUSSO-

VITERBO-  Il disegno dei bambini anche se a livello diverso da quello che può essere per un adulto, e con tutti i distinguo del caso, essendo a contatto con la parte inconscia è pur sempre una produzione artistica. I bambini da una prima fase detta dello scarabocchio, da 2 a 4 anni, passano alla fase pre-schematica da 4 a 7 anni poi a quella schematica da 7 a 9 anni. La fase realistica si ha dai 9 ai 12 anni. I bambini con i loro disegni esprimono, oltre a quello che vedono, anche e soprattutto ciò che sanno e percepiscono delle persone, delle cose e degli eventi. Attraverso elementi fantastici il bambino è capace di esprimere e comunicare il grado di elaborazione dei temi legati alla vita quotidiana che egli conosce. I disegni diventano una vera e propria modalità di relazione, oltre che con sé stesso, con i genitori e le persone o cose significative che lo circondano. È facile notare nei disegni infantili delle esagerazioni di spazi che per gli adulti non hanno senso. Il giovane “artista” dei diversi aspetti della realtà coglie soltanto quelli che per lui sono importanti. Gradualmente, nel tempo, il bambino si avvicinerà ad elaborare i disegni rappresentando il mondo come viene percepito dagli adulti. Attraverso l’evoluzione dei disegni, è quindi possibile seguire la maturazione del pensiero in tutto l’arco evolutivo. Cercare di capire, e provare ad interpretare il disegno del proprio figlio, potrebbe essere un modo per capirlo ed aiutarlo nella crescita. È importante, inoltre, non costringere “l’artista in erba” ad eseguire i suoi lavori entro schemi troppo tradizionali. Per attivare la sua creatività occorre prestargli un’assistenza quasi metodologica, non si dovrà mai fargli mancare fogli, matite, pennarelli e pastelli a cera. Qualunque cosa il bambino produca non va mai sottovalutata e criticata, poiché come già espresso precedentemente, l’adulto non sempre conosce la chiave per entrare nel fantastico mondo infantile. Altra faccia della medaglia è che, proprio per rafforzare il concetto dell’importanza dei disegni, gli esperti, attraverso l’analisi grafica, possono individuare possibili criticità evolutive o anche casi di abuso e violenza sugli stessi minori, ipotesi che comunque vanno verificate attraverso ulteriori approfondimenti e con approccio multidisciplinare.
Un consiglio: date importanza ai disegni di vostro figlio appendendoli nella sua stanza o in altro luogo adatto, soprattutto quelli a cui tiene di più.




Macchina di Santa Rosa e simbologia fallica, un concetto riduttivo

di ANGELO RUSSO-

VITERBO- La Macchina di Santa Rosa e il suo Trasporto per noi Viterbesi non sono un mistero, purtroppo non tutti conoscono questo splendido evento. Vi racconterò cosa successe nel 1994. Ma andiamo per ordine, per chi non conoscesse di cosa stiamo parlando, è utile una premessa.

A Viterbo ogni anno, ormai da secoli, il 3 settembre si ripete uno spettacolo unico al mondo: il Trionfale trasporto della Macchina di Santa Rosa. L’evento, per l’alto grado di spettacolarità, e per la devozione che il popolo ha per la sua Santa, è foriero di forti emozioni. Si tratta di un campanile alto circa 30 metri, del peso di una cinquantina di quintali, composto da un traliccio metallico decorato architettonicamente all’esterno con simboli che, il più delle volte, rimandano alla vita della Santa vissuta e morta a Viterbo (9 Luglio 1233 – 6 Marzo 1251).  Il trasporto, facente parte delle feste religiose in cui si trasportano le grandi macchine a spalla italiane nel 2013 è stato riconosciuto parte del Patrimonio immateriale dell’umanità dell’UNESCO. Il riconoscimento è stato conseguito a Baku in Arzebaijan, nell’ambito dell’VIII Comitato intergovernativo. La torre, illuminata da fiaccole a fiamma viva e luci elettriche, viene portata sulle spalle, di notte per le vie strette della città, attraverso un percorso di poco più di un chilometro da oltre 100 uomini vestiti di bianco con una fascia rossa, nella cinta, chiamati “Facchini di Santa Rosa”. La mole, che con la sua altezza supera i tetti delle case, sfila per le vie buie del centro storico, riverberando la sua luce, oltre che sulle case, su ali di folla esultante e commossa. La “Macchina” è disegnata da artisti, architetti, creativi in genere e ad oggi per lo più viterbesi. È possibile partecipare alla sua realizzazione aggiudicandosi il bando di gara che viene indetto dal Comune ogni 5 anni. Da qualche anno i concorsi sono diventati due: uno per l’ideazione e l’altro appalto concorso per la realizzazione.

Il capitolato prevede la costruzione di una Macchina «alta 28 metri sopra la spalla dei facchini» che raggiunge quindi circa 29,50 metri da terra, e fissa alcune misure limite, anche in base alle vie del centro storico. Per avere l’esatta dimensione dell’evento, per quanto si possa immaginare, non vale nessuna descrizione: deve essere visto.

Il fatto insolito.

Era l’anno 1994 quando una guida informativa sulla Tuscia, scritta da autori inglesi, dedicava poche righe alla Macchina di Santa Rosa, riducendola ad un semplice simbolo fallico, portata a spalla da uomini virili, sminuendo in qualche modo l’aspetto storico culturale e religioso. A Viterbo fu subito polemica: la stampa locale per alcune settimane raccolse i pareri, indignati, della gente. Tutti insorsero. Prima i facchini, successivamente anche politici, uomini di cultura e semplici cittadini.

L’argomento mi “tocca” in modo particolare essendo investito dal doppio ruolo: da psicologo, in questo contesto, ma anche da artista autore della Macchina di Santa Rosa “Sinfonia d’Archi” sfilata per le vie della città dal 1991 al 1997. Allora per partecipare al concorso, che era unico, l’ideatore doveva presentare la sua proposta realizzativa composta da disegni e plastico in scala 1:20 e associarsi con tutto lo staff tecnico per la realizzazione, (Costruttore, Garante, Tecnico abilitato per la firma della struttura portante, addetti all’illuminazione).

Non dovevano certo giungere degli autori d’oltre manica per ricordarci che, Freud, nei suoi primi scritti, tacciò di simbologia fallica tutti gli oggetti appuntiti e/o con uno sviluppo in altezza.

Anche se, a questa affermazione, le contestazioni non mancarono. Carl Gustav Jung, l’allievo, esclamò riflettendo su alcune teorie del maestro Sigmund Freud: “non è possibile che Freud interpreti come una sorta di attività sessuale perfino succhiare il latte dal seno materno da parte del bambino. Non è possibile che tutto debba essere sempre e comunque ancorato alla sessualità.”

Era l’anno 1912. Successivamente in seguito a punti di vista sempre più divergenti, le strade dei due grandi della psicanalisi si divisero. Fu per sempre. Freud è riconosciuto universalmente come il più grande nel vasto panorama della psicanalisi, il pioniere.

Ebbe l’intuito e la genialità di elaborare del materiale che prima di lui era scarsamente preso in considerazione. Con le sue teorie sconvolse i concetti di patologia mentale, tanto da incidere in modo rivoluzionario sulla letteratura che si occupava della personalità e delle differenze individuali.

Non è irragionevole l’ipotesi di riconoscere in Jung l’uomo che più di ogni altro ha saputo ampliare la disciplina psicanalitica, attribuendo ad essa un significato più esteso, tanto da abbracciare i molteplici aspetti dell’umana esistenza, rendendo la sua “psicologia analitica” quanto di più ampio e completo possa esserci nel campo delle scienze del profondo.

Questa premessa è utile per poter affrontare, con un approccio scevro da fattori emotivi, l’argomentazione legata a delle affermazioni degli autori inglesi. I due avrebbero attribuito alla macchina di Santa Rosa una “simbologia fallica”, esempio di una cultura maschilista volta alla dimostrazione della supremazia della virilità. Ci può anche stare ma è una semplificazione riduttiva e nel caso specifico superficiale o quanto meno incompleta.

Freud nella formulazione della sua teoria parlando di “fase fallica” riconobbe in essa un momento evolutivo nei due sessi, correlandola al complesso di Edipo.

Dopo tale formulazione la letteratura specialistica ha associato un valore al “simbolo fallico” che comunque va al di là della sola virilità maschile, rappresentando più ampliamente la virilità trascendente magica e soprannaturale e non solo la varietà puramente fallica del potere maschile.

È semplicistico e riduttivo, in ogni caso, abbinare simbolicamente a tutti gli oggetti che hanno una forma che sviluppa in altezza l’interpretazione di “simbolo fallico”, in tale modo si nega il contesto storico, culturale e personale.  Fu Jung a correlare gli avvenimenti umani alle origini più antiche che nascono nella notte dei tempi. Per spiegare i fenomeni psicologici si avvalse, oltre che delle scienze classiche anche della mitologia, oltre che, dell’alchimia e dell’archeologia.

Si deve a Jung l‘elaborazione del concetto di “inconscio collettivo” quella sorta di psiche oggettiva che è composta dagli archetipi. Questi ultimi rappresentano il materiale strutturante di base, di tale psiche, e tendono ad assumere spesso un significato mitologico o religioso.

Gli archetipi ci mettono in condizione di affrontare l’esperienza secondo modalità conformi ai modelli già presenti nella psiche, inoltre organizzano anche le percezioni e le esperienze per renderle conformi al modello. Jung affermava che ci sono tanti archetipi quante sono le situazioni della vita.

Figure archetipe: madre, bambino, padre, Dio, Santi, vecchio saggio, ecc. Eventi archetipici: nascita, morte, separazione dei genitori, corteggiamento, matrimonio, ecc. E oggetti archetipici: acqua, sole, luna, animali predatori e tanti altri.

Ognuno di questi elementi è la parte della dotazione totale che ci è trasmessa dall’evoluzione allo scopo di equipaggiarci per la vita. Per esempio intorno all’archetipo della madre si possono trovare immagini religiose e mitologiche come la “Vergine Maria” dell’immaginario collettivo cristiano, oltre che le immagini della grande madre pagana.

Non mi sembra azzardato affermare che, la macchina di Santa Rosa, così ancorata con la sua tradizione alla vita della Santa, rappresenti nell’inconscio dei viterbesi, un simbolo di fede, misticità religiosità e amore.

La macchina nei vari secoli si è innalzata fino a posizionare la Santa ad un’altezza dalla quale potesse proteggere simbolicamente i Viterbesi. È solo in onore esclusivo della piccola Rosa che il popolo, attraverso gli ideatori e i costruttori che si sono susseguiti, ha voluto che la statua fosse così in alto, e i facchini, nonostante il loro immane sforzo, quando escono da sotto la “base” la sera del 3, prima di tornare, stanchi, nelle loro case hanno ancora la voglia di alzare lo sguardo verso di lei, Rosa, e rinnovare un patto d’amore che dura da secoli.