Festival di economia e cultura a Palazzo dei Priori a Viterbo: un’occasione per parlare di cose da ideare e da fare.

di FRANCESCO MATTIOLI-

VITERBO- All’epoca della benedizione del petrolio, quando si constatava che i paesi produttori si arricchivano a dismisura (e ancora lo fanno, basti vedere cosa succede nelle architetture, nel turismo e nel calcio a Dubai), si parlava, per il nostro Paese – e per Viterbo – della opportunità di sfruttare i “giacimenti culturali”.
Siamo negli anni ’70 del secolo scorso, cinquant’anni fa. Per Viterbo (e la Tuscia) l’idea di giacimento andava a pallino, perché in effetti gran parte delle sue perle ”giaceva”: ignorate, male utilizzate, oggetto di interesse per sparuti gruppi di individui animati più da interessi culturali personali piuttosto che da una collettività sostanzialmente poco incline a dar loro la dovuta importanza. La cultura era ancora, a quei tempi, il terreno preferito da poche “anime belle” sensibili alle arti e alla storia, ma diveniva percorso accidentato e controproducente per chi riteneva che l’unico modo per crescere fosse quello di alzare capannoni industriali. Il turismo nel Viterbese consisteva per lo più nelle incursioni giornaliere di “fagottari” provenienti dall’area romana e ternana e perfino le Terme erano uno sfizio per pochi.
Così, quando si parlò di giacimenti culturali molti storsero il naso, qualcuno si incuriosì, i più scoprirono che con la cultura ci si poteva arricchire non solo la mente, ma anche il portafogli. Alcuni fulgidi esempi di città di media grandezza toscane, emiliane, venete, pugliesi e siciliane confortarono l’idea e i viterbesi – faticosamente, come accade loro quando devono smuoversi dalle paludi della comfort zone del quieta non movere – scoprirono poco alla volta di possedere: a) un palazzo papale medievale che altrimenti devi andare a Avignone; b) il centro storico duecentesco tra i più vasti d’Europa; c) un giro chilometrico di antiche mura quasi intatte; d) un’area termale ricchissima di acque benefiche in un contesto ambientale e archeologico inimitabile; e) una manifestazione, il Trasporto della Macchina di S. Rosa, di grande impatto antropologico e spettacolare, degno di protezione dell’Unesco. Senza contare che tutta la Tuscia circostante gronda di appeal turistico-culturale: gli etruschi, i Farnese e gli Orsini, i laghi, i boschi, il mare, i monti, l’enogastronomia, i piccoli centri come scrigni preziosi, ecc. Il tutto, proprio sul tracciato più importante della Via Francigena, quello toscano-laziale.
Tutto ciò non fa solo cultura. Fa economia, cioè occupazione. Lontani i tempi degli anni Sessanta e Settanta, quando un noto industriale del luogo diceva che bisognava costruire fabbriche e un commerciante altrettanto noto del centro si augurava che i suoi clienti gli parcheggiassero davanti al negozio a costo di intasare la via. Altre filosofie si sono succedute, ispirate ad una socializzazione trasversale della cultura, alla difesa dell’ambiente, alla sostenibilità dello sviluppo, ad un più ampio concetto di ben-essere. Perché uno dei portati della società postmoderna e terziaria è quello della riscoperta del valore del tempo libero e dello spendere tale tempo in cultura, bellezza, edonismo, scoperta, quindi in turismo. E il turismo è una branca – oggi volano di sviluppo riconosciuto non solo in Italia, ma anche in Europa e in tanti paesi di vari continenti che stanno riscoprendo le loro preziose radici – dell’economia, dello sviluppo economico.
Viterbo e la Tuscia devono fare ancora molta strada ma l’itinerario da seguire è noto e vi si stanno incamminando. Per tutto questo, serve professionalità, competenza, fantasia, spregiudicatezza imprenditoriale, ma anche volontà e impegno concreto da parte della politica.
Che Viterbo sia stata scelta dalla Regione Lazio come luogo per discutere ai massimi livelli istituzionali del legame indissolubile che oggi deve caratterizzare cultura ed economia, lo possiamo apprezzare e intendere come una legittimazione a considerare la città come il secondo centro più importante della Regione, dopo Roma, per beni culturali e per possibilità di sviluppo del territorio. Un segno di attenzione che non va trascurato o lasciato cadere, ma che deve servire come trampolino di lancio per una progettualità innovativa; ma, soprattutto deve essere una assunzione di responsabilità per la Regione stessa a privilegiare la vocazione culturale della Tuscia. E ricordando che, affinché la cultura generi economia, servono investimenti: anche quelli di carattere infrastrutturale, che sono di competenza della massima istituzione territoriale. E’ sperabile che la manifestazione che si snoda dall’’11 al 13 ottobre a Viterbo, con la presenza delle massime autorità istituzionali dello Stato e della Regione in fatto di cultura, e che insiste sul nesso strettissimo che deve mantenersi tra economia e cultura, venga poi onorata da espliciti impegni della Regione stessa.
Impegni in termini di finanziamento di iniziative culturali di pregio, di difesa e valorizzazione dei beni culturali, certo; ma anche di investimenti, di modernizzazione delle infrastrutture in termini di strade, ferrovie, persino aeroporto. Ad esempio il Giubileo, con le sue ricadute turistiche, bussa alle porte. Ma senza un collegamento decente tra Roma e Viterbo, di tutto il movimento turistico che genererà l’evento, resteranno solo piccole briciole alla Tuscia. Viterbo si candida a capitale europea della cultura, ma senza l’appoggio forte e concreto del Governo e della Regione, resterà solo un pio desiderio. In mancanza di questi espliciti sostegni, la cultura di Viterbo e della Tuscia – che per rivelarsi economicamente feconda deve essere legata a un turismo stanziale – rischia di essere, ancora una volta, l’oggetto di una incursione di poche ore di una nuova forma di “fagotteria”, questa volta politica piuttosto che turistica.

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