Giulio Cesare in Egitto di G.F. Händel al Teatro dell’Opera di Roma

di CINZIA DICHIARA-

ROMA – Sentir affermare che un’opera barocca venga riletta eliminando gli orpelli e l’ancoraggio alla sua epoca storica può generare qualche apprensione, poiché simili intenti talora palesano cambiamenti della natura stilistica propria di un determinato soggetto. L’operazione intellettuale tuttavia è pienamente riuscita nel nuovo allestimento del Giulio Cesare in Egitto di Georg Friedrich Händel (1685-1759), in scena al Teatro dell’Opera di Roma in coproduzione col Théâtre des Champs-Élysées di Parigi, l’Oper Leipzig, l’Opéra Orchestre National de Montpellier.

La regia è affidata a Damiano Michieletto, la cui visione del capolavoro händeliano su libretto di Francesco Haym (1678-1729) dal precedente libretto di Giacomo Francesco Bussani (ca.1640-1680) per Antonio Sartorio (1630-1680) a Venezia nel 1677, viene assecondata dalle essenziali eppure suggestive scenografie di Paolo Fantin, illuminate dalle spettacolari geometrie di luci di Alessandro Carletti: un semplice e asettico contenitore lineare bianco, le cui pareti aprono sull’oscurità dello sfondo, cambiando prospettiva e ambientazione a seconda delle esigenze narrative.

Calato subito in medias res da un’ouverture trionfale, il titolo rivela un’opera amorosa che si traduce in una meditazione sul potere e sulla morte attraverso le vicende militari della campagna di Cesare ad Alessandria d’Egitto: l’uccisione di Pompeo fuggito da Farsalo ove era stato sconfitto, lo sdegno di Cornelia e di Sesto, l’incontro e l’unione con Cleopatra, la prefigurazione dell’assassinio del grande condottiero, una volta tornato a Roma.

Lo spettacolo, un dramma poderoso come si conviene al dramma barocco, chiude la stagione lirica 2022/23 del Teatro Costanzi, rilanciando splendidamente la prassi esecutiva della prima londinese del King’s Theatre, nel 1724, col mitico castrato Senesino in coppia con la primadonna Francesca Cuzzoni, e pertanto mette in campo le prestigiose voci dei tre acclamati controtenori Aryeh Nussbaum Cohen (Sesto Pompeo), Raffaele Pe (Giulio Cesare) e Carlo Vistoli (Tolomeo), in effetti quattro col controtenore Angelo Giordano, interprete del personaggio secondario di Nireno. Per le molteplici qualità espressive, che rilasciano non poche emozioni nonostante la dovuta rinuncia di prassi al vibrato, i controtenori dominano la scena in un variegato avvicendarsi di stati d’animo, di volta in volta sottolineati con estrema capacità interpretativa. Dal punto di vista tecnico, la scorrevolezza portentosa dei loro vocalizzi acrobatici, con una ‘messa in voce’ dalla morbidezza e dalla bravura ammirevoli, ha evidenziato uno slancio sicuro e ardito fin nelle regioni più acute, dove raramente è emersa qualche fissità di suono.

Insieme alle nuove star della lirica, la voce, di tutto rispetto, del vivace e originale soprano Mary Bevan (Cleopatra) affronta con disinvoltura, ma non sempre con la regalità di gran primadonna, il ruolo cangiante di ambiziosa regina e ancella in grembiulino, dimostrando personalità. Afflitta, coinvolge, commuovendo appieno nella più famosa aria del Giulio Cesare “Piangerò la sorte mia”, e altrettanto risulta gradevole  nell’aria “V’adoro, pupille”, in cui compare a Cesare nelle vesti di Lidia. Altra voce femminile è quella del sensibile e commovente contralto barocco Sara Mingardo (Cornelia), profonda e intensa interprete, anche con qualche impercettibile flessione, cui non è estranea qualsivoglia declinazione del dolore attraverso le diverse arie assegnatele. Le due figure femminili, nelle quali convergono al pari di quelle maschili sentimenti di ambizione e lotta, di amore e sconfitta, di lutto e vendetta sono affiancate inoltre dal basso Rocco Cavalluzzi (Achilla) e dal baritono Patrizio La Placa (Curio). L’ottimo cast è accompagnato dall’Orchestra dell’Opera di Roma, con il basso continuo eseguito dal cembalo di Ignazio Maria Schifani e dal violoncello di Andrea Noferini, con le tiorbe di Francesco Tomassi e Michele Carreca, sotto la sapiente ed esperta direzione di Rinaldo Alessandrini, nome insigne nell’ambito del repertorio barocco.

Clavicembalista, organista e fortepianista, questi è artefice di una realizzazione che ottiene, tra partitura e scena, una resa impeccabile, e in alcuni momenti strepitosa, quanto ad espressività e messa in luce dell’interiorità dei personaggi, sfoggiando una sicurezza che garantisce alla trama una tenuta completa, con tempi e respiri davvero ben calibrati, nonché un’accurata valorizzazione stilistica. Perspicace nell’intesa con i cantanti sul palco, padrone nello stabilire e nel seguire il ritmo della narrazione e abile nel dipanare la matassa della partitura, tra accenti, esitazioni, silenzi, cedimenti e attacchi, Alessandrini porge la meravigliosa successione di recitativi e arie händeliani al modo di un demiurgo. Grazie a una concertazione molto attenta, pur restando sempre entro un confine di stampo classico e piuttosto sorvegliato, in ciascun brano, che si tratti di ’aria di vendetta’ o ’aria di caccia’, tesse un flusso continuo di sentimenti, in cui i ‘solo’ strumentali, fanno emergere le prime parti, gareggiando con le voci quanto a cantabilità.

La visione di Michieletto, che considera Giulio Cesare “un dramma sul destino”, appare subito improntata a evidente simbolismo, secondo una vena interpretativa che trova espressione eloquente nei movimenti coreografici di Thomas Wilhelm. Questi contribuiscono al clima di costante presagio con l’apparizione di tre figure femminili desolate e impressionanti, le cui lunghissime chiome avvolgono una nudità serica, dalle fattezze lontanamente preraffaellite, moderne figuranti di una statica dance macabre.

Pallide e lugubri, come provenissero da un girone dantesco, le Parche circolano a più riprese sul palcoscenico, attraversandolo con passo lento e grave, ma inesorabile. Ne invadono lo spazio incedendo curve, quindi avvolgono con terribili lacci rosso fluorescente il protagonista, o meglio il suo simbolico alter ego, secondo la consuetudine ormai ricorrente, e qui davvero efficace, del doppio metateatrale. Dipanati da un fuso, altro elemento allegorico, i lacci si avviluppano intorno a Cesare, per definizione dello stesso regista “uomo solo, un po’ goffo” e “quasi spettatore degli eventi”, e, come vuole il fato, ne imbrigliano la vita nonostante i tentativi di divincolarsi, decretando la sua scomparsa nell’oscurità.

La veemente figura del condottiero romano risalta nelle note arie “Col lampo dell’armi” e “Dall’ondoso periglio”, sebbene appaia godibile al di là del tragico anche il suo inanellare gorgheggi amorosi, come nell’aria di stampo bucolico-arcadico “Se in fiorito ameno prato”, che incanta il pubblico.

Personaggio dispotico e ben caratterizzato da Raffaele Pe nell’essere contradditorio e instabile, in effetti è lui stesso a rivolgersi alle terribili divinità mortifere nel recitativo accompagnato dell’aria “Aure, deh, per pietà” del III Atto (n. 33, Scena 4), con la pietosa invocazione Qui celeste Parca non tronca ancor lo stame alla mia vita!” Ma, analogamente a Cleopatra, le Parche lo legano al destino di una morte drammatica che aleggia sul capo di entrambi.

Nella fattispecie, tuttavia, è la vita di Pompeo che è stata fermata dalla mano delittuosa di Tolomeo al fine di ingraziarsi le simpatie di Cesare e tale è l’accadimento dal quale si dipana la trama del capolavoro händeliano che parla di vita e destino, di amore e morte, senza un momento di tregua e con l’enfasi tipica degli ‘affetti’.

La messinscena, come si vuole nell’opera barocca, è ricolma di dettagli e accadimenti, con qualche colpo di scena, come la consegna della testa decapitata di Pompeo esibita in una scatola, che evoca, quale citazione colta, la visione caravaggesca di Salomè con la testa del Battista, e parimenti la Giuditta di Lucas Cranach il Vecchio, nell’atto di esporre sul tavolo la testa di Oloferne. Con finissimo gusto, in un gioco equilibrato ma intrigante persino nell’uso di drappeggi di cellophane trasparente, di stelle filanti sparate in aria, di maschere egizie modello Tutankhamon o manichini per parrucche disposti in simmetrico ordine a scandire lo spazio di recitazione, la modernità è tutta al servizio della resa scenica e della sua dimensione barocca, traslitterata e imborghesita, conciliandosi con esse in modo gradevolissimo.

Un fantasma di Pompeo infine, compare quale simbolo del dolore luttuoso di Cornelia e del figlio Sesto, trasformandosi in una statua monumentale che, considerato il circuito di riferimenti e citazioni, evoca personaggi sinistri o spettri della tradizione teatrale, basti pensare a contesti shakespeariani.

Ben assortiti con ambiente e situazioni ma forse non altrettanto originali, i costumi borghesi di Agostino Cavalca seppur nel riproporre un dejà-vu, si notano per il perfetto taglio sartoriale, con qualche eccezione molto indovinata circa gli accessori simbolici, come mantelli scintillanti e collari faraonici, tra i quali spicca in assoluto un abito da sera verde lucido magnificamente indossato da Cleopatra, inequivocabile reminiscenza della seducente Rita Hayworth in Gilda. Elegante e suggestiva la citazione storica degli antichi pepli drappeggiati sui congiurati contro Cesare, mentre i protagonisti maschili non mancano di seguire il cliché contemporaneo del blazer monopetto, ora blu, ora grigio, ora gessato, con cui compare anche il classico immancabile trench novecentesco e persino una candida tenuta da tennis, tra sottovesti traslucide dalle tinte deflagranti di Cleopatra e mise più dimesse della sofferente Cornelia, alla cui immagine avrebbero giovato costumi leggermente più consoni al rango.

Senza risentirne affatto, il testo risulta sfrondato di alcune parti nei recitativi, di alcuni numeri meno importanti e di minimi interventi del Coro, tranne l’insieme conclusivo. L’eliminazione della cesura tra i primi due atti è parsa invece privare l’assetto generale di una giusta pausa di decantazione, nonostante la narrazione avvincente e scorrevole, scaturita non tanto dall’azione drammaturgica quanto dalla vertigine di bellezza sprigionata dalla musica.

L’allestimento complessivo ha seguito dunque l’impianto originale con alternanza di recitativi secchi o accompagnati e arie col da capo, mentre la regia è incorsa in una caduta di stile che balza agli occhi in uno spettacolo di tale buon gusto e finezza di elementi, per la posa di sopraffazione esibita da Tolomeo su Cornelia, mentre talune trovate shock, insieme ai segni del sangue, concorrono efficacemente ad ammiccare più al genere noir raffinato che al dramma storico, sebbene nel quadro dell’interpretazione di Michieletto risultino davvero convincenti.

In definitiva, quest’edizione ‘attualizzata’ non fa rimpiangere il fasto delle scene di cartapesta né l’opulenza barocca, in un tempo come il nostro, in cui a fronte della magnificenza trascorsa predominano la funzionalità e la sintesi. Tuttavia, il desiderio di uno splendore antico, oggi dimenticato, permane.

image_pdfEsporta in PDFimage_printStampa la pagina
LEGGI TUTTE LE NOTIZIE