Gustav Kuhn, solidità musicale ed empito wagneriano

di CINZIA DICHIARA-

Artisticamente battezzato da Herbert von Karajan, invitato alla testa dei Berliner e dei Wiener Philarmoniker, attivo ovunque nei teatri lirici più prestigiosi del mondo e a lungo in Italia, fraterno amico di Luciano Pavarotti e Lucio Dalla coi quali condivise il progetto di un’opera lirica, il direttore d’orchestra austriaco è ora in procinto di partire per la Cina ove realizzerà nuovi programmi

Attivo per decenni presso le maggiori istituzioni musicali, dalla Royal Opera House di Londra alla Suntory Hall di Tokyo, Gustav Kuhn è nato il 28 agosto 1945 nella Stiria, precisamente a Turrach nei dintorni di Salisburgo, particolare in cronaca non proprio marginale. Dagli inizi, quale allievo e assistente di Herbert von Karajan, all’attività svolta con orchestre famosissime, la sua valentia lo ha condotto a divenire figura di riferimento anche nella direzione di grandi teatri lirici. Wagneriano per eccellenza, ha interpretato la Gesamtkunstwerk, ovvero l’opera d’arte totale del genio di Lipsia, per interi cicli e in edizioni rimaste memorabili. In tale contesto ha maturato un proficuo rapporto con l’Italia, particolarmente nella felice direzione del San Carlo di Napoli, toccando altresì Palermo, Milano, Bologna, Roma, Firenze, Venezia, Macerata, Bolzano, rapporto che perdura tutt’oggi. Difatti, l’Accademia di Montegral, una sua creatura pensata per formare giovani cantanti e artisti, oltre a festival e concorsi internazionali come il “New Voices” della Fondazione Bertelsman, lo impegna con regolarità presso la sua sede, un convento ottocentesco della provincia lucchese. Regista e compositore, peraltro direttore del Festival di Salisburgo per numerose stagioni, con la sua possente e talora discussa figura di gigante della musica ha sempre dato vita a molteplici iniziative, attraverso un’inesauribile operosità e grazie a una costante verve creativa.

Il mio incontro telefonico con Kuhn è un momento di conversazione singolare. Interlocutore cordiale, spirito ironico e socievole, egli sa porgersi con semplicità di tratto, sulla scorta del carisma di un condottiero di lungo corso che abbia attraversato i pelaghi della carriera e della vita.

La portata della sua personalità si palesa nel volgere di poche frasi ed è evidente che, in lui, lo spessore musicale fa il paio con un temperamento dirompente. Piglio deciso, opinioni pragmatiche e affermazioni nette ne contraddistinguono l’eloquio autorevole. In effetti Kuhn comunica molto serenamente una piena cognizione del proprio valore, il tutto miscelato con briosità diffusa e cortese disponibilità.

Buongiorno, maestro, avrei in animo di compiere con lei un breve giro di ricognizione intorno alla sua carriera artistica

Molto bene, occorrerebbero ore – afferma in tono espansivo – affinché io potessi parlarle di tutto questo ma, opportunamente, prendiamo l’abbrivio da Herbert von Karajan, musicista importante per me sotto molteplici aspetti. Innanzitutto lui ed io abbiamo avuto in comune la nascita a Salisburgo e crescere nella città di Mozart costituisce qualcosa di simbolico. Inoltre, consideri che negli anni ’50- ’70 Karajan non era soltanto un direttore d’orchestra ma un vero e proprio emblema delle possibilità dell’essere umano. Come ho affermato nel mio libro (Aus Liebe zür Musik, Henschel, 2000, ndr.), è stato talmente grande che dopo di lui non ci sarebbero potute essere altre figure come la sua. Ed è andata esattamente così.

Tra i miei maestri egli è stato senza dubbio quello fondamentale. Mi ha fatto comprendere una nozione indispensabile che, ricordo in modo indelebile, ebbe a spiegarmi in sintesi: «È importante che lei come direttore d’orchestra capisca che si può dire tutto in otto parole: troppo forte, troppo piano, crescente, calante, lungo, corto. Bastano otto parole.»

Infatti, ai fini della realizzazione esecutiva di un brano tanti discorsi sull’interpretazione hanno un’importanza infinitesima, rispetto alla grande bravura tecnica che invece occorre possedere quando si voglia essere musicisti. Questo è stato un fantastico insegnamento e nel mio ruolo di assistente ho potuto riceverne continua dimostrazione ogni volta che partecipavo alle prove di Karajan con i Berliner Philarmoniker. Davvero, rivolgendosi all’orchestra, egli parlava pochissimo, quasi niente, e trovo che avesse perfettamente ragione. Non si può dire che cos’è il dirigere e non si può dire come funziona, allo stesso modo in cui non si può descrivere perché una persona abbia del carisma. Un’alchimia, un mistero, come si fa a definirli?

  • E Karajan?

Karajan era veramente così bravo? Io, come altri, sostengo di sì; alcuni sostengono altrettanto, mentre c’è anche chi afferma che in lui predominasse il senso estetico, il volere tutto bello e buono, ma quello era l’orientamento prevalente nel periodo intorno agli anni ‘60 -‘70.

  • Il suo rapporto con l’orchestra dei Berliner?

Semplice: io ero il giovane Kuhn, un salisburghese come il ‘grande capo’ Karajan, dunque il nostro era un incontro tra Salisburgo e Berlino. Questo era l’aspetto concreto della situazione, tutto il resto non ha importanza, parimenti al ragionamento circa la direzione d’orchestra.

  • In seguito, quando lei stesso li ha diretti?

È un’orchestra incredibile! Conoscevo già personalmente molti dei componenti e con essi avevo instaurato un rapporto speciale. Quale assistente di Karajan ero onnipresente alle prove, quasi sempre vicino a loro, spesso seduto in prima fila. La prima volta che li diressi fu con Salvatore Accardo che suonava il Concerto per violino di Johannes Brahms. Avevo una trentina d’anni e lui era nervoso quanto me. Da questo incontro tra noi due nacque una grande amicizia poiché, comprensibilmente, la situazione era difficile per entrambi.

  • E, in definitiva, com’è andata?

Così giovane! Direi che è andata bene.

  • Lavorare con un’orchestra così prestigiosa è stato agevole?

Mah, devo dire in tutta onestà che anche i Wiener Philarmoniker sono una grandissima e fantastica orchestra, e ve ne sono molte altre di ottimo livello. Nessuna orchestra è facile, tutte sono difficili. Certo la più difficile è stata l’Orchestra dell’Opéra di Parigi, che io amavo di più. Ma la difficoltà con un’orchestra non conta. È fondamentale che essa riesca a recepire determinate idee musicali. Il rapporto effettivo si ha solo con la musica, avendo chiaro un unico obiettivo: saper convincere l’orchestra in modo di trasmettere una precisa concezione musicale al pubblico. Alla fine, è il pubblico che deve ‘capire’, anzi, ‘sentire’ ciò che il direttore vuol esprimere. Tutto questo si può realizzare concretamente, ed in modo appassionante, non soltanto con musicisti bravi come i Berliner o come i Wiener Philarmoniker che sanno comprendere e rispondere nell’immediatezza, ma, lo posso ben dire, anche con altre orchestre. Ad esempio, ho avuto una grandissima soddisfazione, da giovane, con l’Orchestra del Teatro alla Scala. Chiaramente, ricordo benissimo, eseguire Wagner con i musicisti scaligeri non è come prepararlo con un’orchestra tedesca che lo ha in repertorio avendolo suonato cento volte, eppure il mio debutto alla Scala col Tannhäuser di Wagner, nel 1984, fu un vero successo.

  • E quindi veniamo all’Italia, ovvero alla sua esperienza con i più importanti teatri d’opera italiani

Così come devo ringraziare Herbert von Karajan, altrettanto devo essere grato all’Italia e molto ai suoi enti lirici. Ho avuto la fortuna di cominciare la mia carriera italiana a Palermo, con un Don Giovanni di Mozart che ebbe grande successo. Tanto che la direzione del Massimo palermitano chiamò subito Napoli, sapendo che c’era bisogno di reperire un direttore in grado di eseguire un’opera di Händel con l’Orchestra del San Carlo. Mi fu chiesto se conoscessi l’opera in programma e naturalmente io risposi di sì. – E aggiunge un’esplicita allocuzione colloquiale – Come no!! – accompagnandola con sonora ilarità. – Fu così che diressi il Giulio Cesare presso il Teatro Grande di Pompei.

In breve, arrivai al San Carlo che non avevo neanche trent’anni. L’intera orchestra era supergentile con me e io me ne rallegravo molto trovandomi bene con i suoi musicisti. Le scene e i costumi erano di Attilio Colonello che inizialmente non conosceva questo capolavoro händeliano, tanto che scherzava con me: «Gustav, chi sono i romani, chi gli egiziani?» Persona piacevole, spiritosa e divertente. Realizzammo l’allestimento del nostro Giulio Cesare curando un’acustica molto interessante presso il magnifico teatro romano, cosicché da questa prima collaborazione nacque una lunga amicizia col San Carlo e in particolare col sovrintendente di quegli anni, Francesco Canessa. Con lui ho fatto moltissime produzioni e di conseguenza il teatro napoletano è diventato una mia casa. Mi sentivo così bene a Napoli!

  • Infatti strinse un lungo legame con il teatro e con la città

Era tutta una situazione ideale. Basti pensare che, dal mio debutto a Napoli, nel ’75, quando ero impegnato in teatro raggiungevo il San Carlo via mare, ormeggiando la mia barca a breve distanza, in modo da poterlo facilmente raggiungere in pochi minuti. Ben ventitré anni dopo, allorquando nel ’98 decisi di fondare il mio festival a Erl, in Austria, ecco, per quell’importante inaugurazione volli invitare proprio l’Orchestra del Lirico napoletano, che anche in quell’occasione suonò benissimo. Questo dettaglio riassume e spiega il mio legame con la città partenopea.

  • Quindi, inaugurare il festival di Erl con l’Orchestra del San Carlo ha significato un passaggio del testimone, quale anello di congiunzione…

Sì, anche se avevo creato una mia orchestra ad Erl, che peraltro è andata molto bene, allora volli l’orchestra sancarliana come viatico per un buon inizio; inoltre, per l’inaugurazione decisi di allestire Das Rheingold, desiderando mostrare al mio pubblico come realmente io penso che vada eseguito Wagner. E Wagner amava l’Italia, cosa che va tenuta in considerazione anche per lo stile, e amava la musica di Bellini.

  • Dunque, come va interpretato? Qual è la sua idea?

L’interpretazione di Wagner richiede essenzialmente naturalezza, una prerogativa che oggi dimenticano tutti. L’espressione del canto deve essere vicina a quella stessa con la quale si esegue il canto di Bellini, senza fare cose diverse da ciò che è scritto in partitura. Wagner sapeva che l’espressività è già tutta contenuta nel fraseggio e nella melodia di Bellini. Attraverso la melodia, occorre dunque dipanare il canto di Wagner in modo ‘ben cantato’, proprio come lo si intende in Bellini: questa è la mia idea del Wagner originale.

  • Naturalezza, semplicità di approccio

La naturalezza consiste in quelle indicazioni che Wagner ripete molte volte in partitura, è sufficiente leggere attentamente: “semplice”, “con naturalezza”, in tedesco “ganz natürlich”, con il massimo della naturalezza. E invece i cantanti intonano forzando, caricando esageratamente l’espressione, sovente con un tremolo troppo forte e insistito. Anche l’orchestra, è spesso troppo forte, quindi il cantante è indotto a impiegare eccessiva potenza, eseguendo la melodia di continuo a piena voce. È tutto un equivoco. – E a tal riguardo porge un esempio lampante intonando una frase, dapprima con linearità, quindi forzando l’emissione vocale. Un esempio eloquente, una lezione.

  • Il suo rapporto con l’Italia prosegue tuttora

Ah, nella mia vita, sempre molte cose mi riconducono all’Italia! Herbert von Karajan, il mio maggiore punto di riferimento, adorava l’Italia e cominciò veramente ad aiutarmi soltanto quando si accorse che io parlavo l’italiano un po’ meglio di lui! -E si produce nella loquela di Karajan- «Un giovane direttore austriaco parla italiano meglio di me? Impossibile!» Era divertentissimo. – e prosegue affabile – Avvenne che Karajan si trovasse a dirigere a Trieste, ove aveva un sincero amico presso il quale aveva trovato rifugio durante la guerra, Raffaello de Banfield (compositore cosmopolita, direttore artistico del Festival dei Due Mondi di Spoleto, amico di notissimi artisti da Roland Petit alla Callas, da Picasso a Cocteau e Poulenc, ndr). In seguito, avvenne, appunto, che Karajan gli parlasse di me, riferendogli che sapevo dialogare con l’orchestra molto bene in italiano, cosa che mi giovò in seguito.

Altra grande figura di riferimento è stato nella mia vita un italiano che adorava i tedeschi, un certo Bruno Maderna – asserisce con spirito compiaciuto –  il mio secondo, grande, maestro! Io non intendevo affatto diventare direttore d’orchestra, avevo svolto studi universitari di filosofia e psicologia ed ero molto interessato alla composizione. Cosicché andai a studiare con Maderna mentre questi si affermava sempre più come compositore. Frequentando con lui i bastioni dell’avanguardia, nella sua cerchia di amici incontravo sovente protagonisti della scena musicale, come Boulez e Stockhausen. Avevo un certo talento per la composizione, ma, poi, ho svolto la carriera di direttore tanto velocemente da non avere più tempo per scrivere.

-E a tale riguardo procede con un aneddoto- In tempi più recenti è accaduto che nei dintorni di Lucca abbia scoperto il Convento dell’Angelo, un complesso monastico gestito da padri passionisti, ove nel 2000 ho trasferito l’Accademia di Montegral, istituzione precedentemente da me fondata, acquisendo l’edificio a condizione che la chiesa rimanesse consacrata e che si continuasse a celebrarvi la liturgia della messa. Ricordo l’organo, toscano del 1820, di Domenico Pucci, ancora non restaurato: funzionava solo un ‘Re’. Allora composi un ‘Credo’, una piccola composizione che in seguito tralasciai, mentre la vita andava avanti tra un incarico e l’altro. Dieci anni dopo, di fronte a una numerosissima assemblea dei fedeli, la chiesa stracolma di persone, i miei collaboratori provavano la messa che ci siamo impegnati a cantare tutti gli anni nella mezzanotte del Natale. Facendo il mio ingresso sento un brano molto bello, mi congratulo con gli esecutori per la bravura e domando chi ne sia l’autore. E loro: «Ma è un suo brano!» Ecco, quando fai una composizione, poi la lasci al pubblico; e io l’avevo completamente dimenticata.

Il mio ultimo pezzo è invece legato alla bellissima amicizia con Luciano Pavarotti, che ho diretto per dieci anni, sempre, quando era possibile. E al Trio Infernale. Allora ero altresì interessato alla musica pop e rock, essendo padre di sette bambini che crescevano ascoltando anche questi generi musicali. Frattanto conobbi Lucio Dalla, cantante che mi è piaciuto molto, veramente interessato alla musica classica. Inoltre il cantautore bolognese conosceva bene Luciano e questi era mio amico; fu in tale crocevia di amicizie che nacque tra noi uno speciale sodalizio.

  • Allora il Trio Infernale eravate voi tre?

Ma sì! Assolutamente noi – risponde con riso bonario.

  • Che cosa avete composto insieme?

Lucio Dalla ed io, un pezzo grandissimo, insieme classico e pop, dal titolo Cinquecento (per voce solista, tastiera e orchestra, trasmesso da Rai International nell’edizione 1996 del Prix Italia, ndr.) eseguito in prima mondiale nel Salone dei Cinquecento, all’interno di Palazzo Vecchio, a Firenze.

Inizialmente avevo pensato di scrivere per loro due un’opera. Entusiasta al massimo, Pavarotti si era mostrato subito d’accordo. Ma intervenne il problema tecnico riguardante Lucio, poiché lui doveva cantare con il microfono e io non avevo considerato tale esigenza. Finché, nel frattempo, sopraggiunse la scomparsa di Luciano, per tutti noi davvero prematura.

Intendevamo comporre insieme un nuovo Otello e con quel proponimento Lucio ed io ci eravamo recati più volte a Merano per raggiungere Luciano, il quale nella località termale alpina si sottoponeva ad alcune delle sue cure dimagranti. E invero eravamo tutti e tre assoggettati alla stessa disciplina, consumando con lui pasti a base di riso bollito. Anche Lucio affrontava il rigore della dieta poiché voleva sempre essere in forma e apparire al meglio e, dal mio canto, avevo aderito anch’io al programma salutare, avendo sempre troppo apprezzato la buona tavola. Ma era tutto molto divertente e fu allora che ci demmo il titolo di Trio Infernale. Anni dopo, mi pare due settimane prima della propria scomparsa, Lucio mi chiamò ricordandomi la promessa che avevo fatto di comporre quest’opera, per invitarmi a mantenere l’impegno anche se Luciano non c’era più, e raccomandandomi: «Gustav, devi finire questo pezzo per me».

Cosicché mi rivolsi al suo pianista. Lucio aveva un assistente validissimo, che lo ha sempre accompagnato alle tastiere, anche in Cinquecento, il pianista bolognese Beppe D’Onghia, bravo compositore, vero intenditore di musica classica, artista interessante che meriterebbe di essere più conosciuto. Lo chiamai dicendogli che dovevamo finire questo Otello. Venne alcune sere al convento dell’Accademia del Montegral ove gli chiesi di impegnarsi a trovare delle parole italiane consone, elaborando un testo molto buono. Purtroppo, fu allora che scomparve Dalla.

  • Un’opera rimasta incompiuta…

 … alla quale, compatibilmente con gli atri impegni, conto di tornare.

  • Lei trascorre diverso tempo in Italia

Vivo metà anno in Austria e metà in Italia, più o meno in questa ripartizione.

  • Una soluzione che, rispetto alla sua carriera planetaria, sembra riassumere i cardini della sua esistenza: da un lato l’attaccamento alla terra nella quale è nato e si è formato, dall’altro l’amicizia con un paese nel quale ha molto lavorato, portando ancora avanti stabilmente alcuni dei suoi interessi musicali

Di sicuro, ma non del tutto. Molto presto ho capito che nell’evolversi del mondo occorreva guardare assolutamente verso oriente e seguire gli sviluppi del ruolo della Cina nello scacchiere mondiale. Fui invitato ad andarci per la prima volta nel 2013, allorquando cominciai a lavorare con le risorse e con le energie dell’oriente in campo musicale, rimanendone impressionato. Muovevo dall’idea che la tecnica priva di intenzione artistica non sia affatto interessante e partii, dunque, con l’intento di portare tale orientamento musicale al Sol Levante. Fu così che, poco più di dieci anni fa, diressi la prima edizione assoluta del Parsifal in Cina.

Spinto ed entusiasmato dal grande risalto che il popolo cinese conferisce alla cultura, vi farò ritorno il mese prossimo, per trattenermi colà un intero mese. Pare che in occidente diminuiscano i mezzi a sostegno dell’arte, cosa difficile da accettare, mentre in Cina sono stati edificati teatri per la lirica in quantità. Di conseguenza vado là. Chiaramente, l’Italia è ottima per vivere, e altrettanto l’Austria, che per la musica non è male: Schubert, Haydn, Mozart, sono tutti compositori con un grande talento! – esclama scherzosamente – Ma bisogna andare avanti! Dunque mi rivolgo verso la Cina, alla quale provo a portare la musica, e, soprattutto, l’arte.

  • Certamente gli orientali sono attratti e, da tempo, del tutto compenetrati nella nostra civiltà musicale

Quando giunsi in Cina non nutrivo grandi aspettative e, anzi, mi domandavo come i cinesi avrebbero mai potuto capire il Parsifal. Finché diressi la prova, constatando, appena due ore dopo, che l’orchestra era cambiata totalmente. Infatti, a quel punto tutti avevano cominciato a suonare bene anche Wagner e secondo tutt’un’altra filosofia. Ecco, ciò è stato sorprendente! ­In definitiva, con loro ho avuto prova del mistero del dirigere la musica con il quale abbiamo cominciato il nostro discorso in questa intervista, della quale la ringrazio davvero molto. È stato un piacere per me!