I ricordi di Rosanna De Marchi sulla Macchina di Santa Rosa

di ROSANNA DE MARCHI – Tanti anni fa, durante il trasporto della “Macchina” di santa Rosa,
c’era una tradizione che con il tempo è andata a scomparire. Ma prima ricordiamo alcune cose importanti.
La sera del 3 settembre di ogni anno, a Viterbo, la macchina viene sollevata e portata in processione a spalle da un centinaio di uomini detti “Facchini di Santa Rosa”, ora vengono chiamati “Cavalieri di santa Rosa”, lungo un percorso di poco più di un chilometro articolato tra le vie, talvolta molto strette, e le piazze del centro cittadino.
Il trasporto ha sempre fatto il percorso che, ancora oggi conosciamo, comprese la varie soste: Piazza Fontana Grande, Piazza del Plebescito, Piazza delle Erbe, a Via del Corso davanti la chiesa del Suffragio, a Piazza Verdi, o del Teatro come viene chiamata dai viterbesi, ed infine dopo la salita di santa Rosa, che i facchini percorrono quasi correndo, arriva davanti la Chiesa di santa Rosa. Qui verrà deposta e rimarrà esposta per alcuni giorni dopo il trasporto.
Le soste sono necessarie per far riprendere i facchini dalla fatica, visto che, la “Macchina” è una torre alta circa trenta metri, cinquanta quintali di peso, illuminata dalla luce viva di tante fiammelle, portata a spalla da oltre cento coraggiosi uomini lungo un difficile percorso di oltre un chilometro.
È la “Macchina” dedicata a S. Rosa da Viterbo, che la sera del 3 settembre sfila per le vie del centro storico, rinnovando il tradizionale evento, unico al mondo, lo stesso ormai da più di settecentocinquanta anni, al quale hanno assistito in passato personaggi famosi, tra cui Papa Wojtila, il Principe Carlo d’Inghilterra, presidenti del consiglio, ministri e sottosegretari, ma anche attori, giornalisti, conduttori e autori televisivi.
Dal 4 dicembre 2013 il Trasporto della Macchina di Santa Rosa è Patrimonio Immateriale dell’Umanità. Vestiti di bianco e rosso, con un fazzoletto alla pirata in testa, i facchini di Santa Rosa, poco prima di affrontare la “Macchina”, ricevono dal vescovo la benedizione “in articulo mortis”: quasi una estrema unzione, poiché ogni trasporto rappresenta un momento di grande pericolo per la loro vita. Una prova di forza e di fede nei confronti della patrona della città, morta nel 1251 ad appena diciotto anni. Una ragazzina che, pur di famiglia umile e non certo ricca, offrì la sua vita a Dio e ai poveri della sua città
Le origini della Macchina risalgono agli anni successivi al 1258, quando, per ricordare la traslazione del corpo di Santa Rosa da Viterbo (1233 – 1251) dalla Chiesa di S. Maria in Poggio al Santuario a lei dedicato, avvenuta il 4 settembre per volere di papa Alessandro IV, si volle ripetere quella processione trasportando un’immagine o una statua della Santa illuminata su un baldacchino, che assunse nei secoli dimensioni sempre più colossali.
Dopo questo breve, ma forse doveroso riepilogo, torniamo alla tradizione che si è persa con il passare degli anni.
Quando i facchini arrivavano a Piazza del Plebiscito, una volta “posata” la “Macchina”, andavano a rifocillarsi presso il Dazio, che si trovava a fine Via Cavour, dove veniva offerto loro un panino con la porchetta e del vino.
I facchini una volta erano uomini abituati a bere e la fatica invitava a riprendere le forze con una bella bevuta. Quello di offrire vino, si ripeteva anche nelle altre fermate.
A Piazza del Teatro c’era un forno, il quale oltre alla proverbiale bevuta, dava ad ogni facchino, un maritozzo con dentro i pinoli e uva passa, e dei confetti. Quell’anno io ero insieme alla mia nonna ad aspettare l’arrivo della “Macchina”.
Ero piccola, e la nonna mi fece mettere oltre le corde che fungevano da transenne e le sedie delle tante persone che avevano piazzato le sedie fin dal mattino. Ognuno desiderava vedere la “Macchina” e i facchini stando davanti. Come dicevo stavo davanti a tutti, in primissima fila.
I facchini avevano “posato” la “Macchina” e si erano avviati sull’entrata del forno per avere quanto il proprietario aveva da offrire loro. Ad un certo punto vedo un facchino, venire verso di me. Si avvicinò e tendendo le mani mi offriva un maritozzo e dei confetti. Mi era stato insegnato a non accettare mai nulla dagli estranei, così girai lo sguardo verso la nonna per sapere se potevo prendere quello che il facchino mi voleva donare. La nonna fece un segno di assenso con la testa, ed io presi un maritozzo ancora tiepido e una piccola manciata di confetti.
Perché la tradizione delle bevute con il vino, con il relativo panino con la porchetta venne abolito? Probabilmente perché qualcuno abbondava, e in magari diventava un po’ brillo.
Il forno a Piazza del Teatro, stava dove c’è la gioielleria Menichelli, ma non c’è più da molti anni, e così anche il maritozzo con i confetti , non vengono più distribuiti.
Dimenticavo di dire, che il maritozzo lo mangiai, ma i confetti no.

image_pdfEsporta in PDFimage_printStampa la pagina
LEGGI TUTTE LE NOTIZIE