di FRANCESCO MATTIOLI-
L’ultimo colpo di maglio del conservatorismo (avrei preferito quello di coda, significava che comunque se ne stava andando.…) trumpiano si sta abbattendo sull’università. E che università… stiamo parlando di Harvard (ma anche la Columbia e altre sono coinvolte), cioè della seconda università in America (dopo il MIT) e terza nel mondo. Perché tanta severità verso Harvard, università privata a cui vengono ritirati i contributi statali e altre commodities istituzionali? Per la semplice ragione che ad Harvard si parla troppo di libertà e di inclusione, un po’ come a Berkeley, California University, negli anni Sessanta si cominciò a parlare troppo di libertà e di inclusione.
Era nell’aria. Durante la presidenza Biden molte delle università americane avevano cominciato a favorire l’ingresso di studenti afroamericani, ispanici e nativi americani rispetto agli asiatico-americani; non solo: la gran parte di esse avevano aperto ad una presenza sempre più manifesta del movimento lgbtq. Tutto questo, appariva un tributo al concetto stesso di università, intesa come centro di accoglienza e di sviluppo del pensiero interculturale e di recupero di ogni marginalità discriminata, tanto più in America a favore di alcuni dei tanti gruppi etnici che costituiscono la popolazione statunitense. E tuttavia, nelle università si stava affermando non solo un processo incanalato nel sentiero di una crescita di civiltà, di tolleranza e di libertà, in specie quella didattica e scientifica, ma anche un vero e proprio fermento di lotta al conservatorismo. Tanto è vero che si stava istituzionalizzando anche qualche forzatura, per favorire alcuni studenti d’estrazione etnica minoritaria rispetto agli altri. Inoltre alcuni docenti più tradizionalisti erano stati costretti ad abbandonare le loro cattedre – a causa delle forti contestazioni ricevute – e ad indirizzarsi verso atenei più consoni alle loro idee, come ad esempio Stanford.
Già la Corte Suprema, a maggioranza repubblicana, aveva avuto da ridire su questi episodi, ma la nuova presidenza Trump si è subito messa al lavoro per restituire i colpi, e con gli interessi….
Sia chiaro: l’università deve – ripeto: deve – essere il luogo del pensiero libero; lo sanciscono tutte le Costituzioni democratiche dell’occidente. Gli unici limiti devono riguardare la teorizzazione e/o la copertura di quelli che sono considerati reati dalla Legge. Solo nelle dittature esiste un controllo preventivo su quel che si studia, si insegna e si valuta. Sappiano bene come gli studiosi dell’Istituto per le Scienze Sociali di Francoforte, tra i quali Horkheimer e Fromm e molti scienziati di valore, come Von Braun e Einstein, tanto per citarne alcuni, furono costretti a fuggire dalla Germania nazista; e sappiamo dell’emarginazione praticata dal fascismo verso quei docenti universitari italiani che non giurarono fedeltà al regime.
Tuttavia, a fronte di tanti geni del pensiero umano, introduco – l’ho fatto anche in altre circostanze – il pensiero di un vecchio contadino della Tuscia, il buon Sestilio.
Vi sono almeno due suoi pensieri, dettati dall’esperienza e e dal buon senso popolare che nascono nelle campagne che ben si addicono alla nostra questione.
Il primo: Sestilio sentenziava che, se non regoli dove l’acqua deve andare, si spargerà per tutto il campo, fino ad incanalarsi dove non vorresti. Insomma: se ti limiti a dire che l’acqua ci vuole, ma non la indirizzi in modo utile, razionale, condiviso, ci sarà senz’altro chi la indirizzerà al posto tuo, e per i propri interessi. Ecco perché il conservatorismo, il suprematismo, il decisionismo, il celodurismo stanno prosperando ovunque nel mondo: perché di fronte alle chiacchiere di principio elaborate nei salotti buoni di certo progressismo, che tuttavia non si concretizzano in risposte comprensibili a tutti, c’è chi offre soluzioni antidemocratiche ma efficienti, che rassicurano un elettorato ondivago e preoccupato. Un mio collega e buon amico americano, Università di Chicago, ispirandosi a David Matza, uno che se ne intendeva e ne scriveva negli anni ’60, mi ha scritto: “Se il messicano entra e i progressisti non sanno formulare provvedimenti per accoglierlo e dargli uno spazio civile, quello per sopravvivere si dà ai signori della droga, che in cambio gli procurano soldi e sicurezza: poi arriva Trump, dice che i messicani sono tutti banditi, che vanno cacciati e l’americano medio gli batte le mani”. “Toh”, gli ho risposto” da noi otto clandestini su dieci delinquono perché lo Stato e le Associazioni non sanno seguirli, guidarli e integrarli…”.
Poi Sestilio ne diceva un’altra: “E’ inutile che ti lamenti con il tuo vicino che brucia le stoppie e ti affumica il campo, se poi tu fai lo stesso e affumichi un altro vicino”. Come dire, se predichi bene e razzoli male…
I movimenti libertari vogliono libertà di parola, libertà d’azione, invocano la democrazia, esigono rispetto per la diversità; giustamente. Ma sono veramente disposti a praticare questi ideali? O, troppo spesso, debordano in un massimalismo che, come minimo, sorprende o peggio allarma, la gente comune? Quanti torquemada si aggirano nei tribunali inquisitori del Politicamente Corretto? C’é un vecchio rovello dibattuto da Karl Mannheim, studioso del cambiamento sociale, il quale osservava che qualsiasi movimento innovativo e rivoluzionario poi si arrocca sulle sue verità e diventa autoritario. Ed è anche il rovello che divide, ad esempio, la socialdemocrazia dal comunismo: la prima pronta a fare la rivoluzione, ma per chiamare progressivamente tutti alla condivisione degli stessi ideali in un società di uguali; il secondo pronto a rivoltare il mondo in un batter d’occhio, per affermare sé stesso e demonizzare anche chi ha bisogno di tempo per abituarsi al nuovo. Certo, spesso il nemico è potente, ottuso e ancor più violento: e talvolta siamo costretti a condividere con lui i suoi stessi metodi per batterlo. Ma poi, siamo sicuri di restaurare un clima di rispetto per le differenze, tutte, anche quelle di pensiero? Ecco: il dilemma che nasce nelle università americane, ma anche in Europa, in Italia, forse è proprio questo? Non sarà che abbiamo lasciato scorrere l’acqua senza darle una giusta direzione e adesso qualcuno ne approfitta per prendersela tutta per sé? Non sarà che siamo pronti a lamentarci del vicino, ma poi ci comportiamo allo stesso modo?
Era un giorno di ottobre del 1969; sette mesi dopo gli scontri di Valle Giulia. A filosofia, durante un’assemblea studentesca aperta anche ai docenti, un certo prof. Franco Ferrarotti, allora trentasettenne di chiara impronta progressista e libertaria, chiese: “Avete ragione. Ma adesso, cosa proponete?”. La domanda era provocatoria, perché esigeva di formulare programmi, cioè regole. E a noi – ancora imbevuti del motto sessantottino “siamo realisti, vogliamo l’impossibile”- sembrò di dover scalare, a quel punto, una montagna.