Teodor Courrentzis al Regio di Parma, un successo incontenibile

di CINZIA DICHIARA-

Veniva giù il loggione con tutti i palchi, platea compresa, lo scorso sabato sera al Teatro Regio di Parma per Teodor Currentzis e la sua orchestra siberiana MusicAeterna.

Un concerto del Festival Verdi 2024 che può definirsi senza dubbio epocale, prova di talento e genialità di un musicista sommo cui tutto il pianeta si inchina. Intanto lui, il greco Currentzis, in circolazione sulle mappe più prestigiose della musica, continua ad articolare le sue piroette volteggiando sul podio con la prossemica di un elfo ora bonario ora inquietante, con la flessibilità sinuosa di un funambolo e con il carisma di un padre spirituale ortodosso in grado di sollecitare energie metafisiche alla corte del sinfonismo e della lirica mondiali.

Per le sue capacità étonnant sembra conoscere a menadito il Dictionnaire Encyclopédique des Amusemens des Sciences di Jacques Lacombe (Parigi 1724 – 1811), sorta di bibbia dei prestigiatori della prima metà del XIX secolo, e ancor meglio il Dictionnaire portatif des beauxarts, ovvero, “Compendio di ciò che spetta all’ architettura, alla scultura, alla pittura, all’ intaglio, alla poesia, ed alla musica” , opera dello stesso stravagante autore, poiché tutto questo riesce a coniugare nel suo singolare modo di ‘scolpire’ la musica, facendo apparire immagini, dipingendo quadri, intagliando frasi, suscitando sentimenti e descrizioni poetiche, costruendo edifici sonori in una fantasmagorica associazione di specificità.

Comparso in palcoscenico tra il fragore degli applausi, figura agile e dinoccolata, sguardo tenebroso, sorriso éblouissant e mise eteroclita che evita il galateo del frac, Courrentzis esibisce la comodità informale e asciutta di stivaletti e pantaloni aderenti total black, sotto una casacca da pittore abbottonata sul retro, evocando la figura di un trovatore medievale, ma nell’insieme sembra più vicino a un divo del rock.

Il suo aspetto da artista scapigliato, alto, bello e dannato, con le chiome scurissime divise in lisce e lunghe bande laterali, fa molto bohémien, entusiasmando l’uditorio fin dal momento dell’attesa, prima ancora che la musica sgorghi dalle sue mani da illusionista, flessuose all’inverosimile.

Quindi si muove come un agile spirito dell’aria, o dell’acqua, un leggiadro genietto delle foreste oppure un vitalissimo Eros/Anteros; in sostanza, una sorta di divinità protettrice della partitura, che slancia le lunghe braccia verso i suoi professori d’orchestra, tutti russi e tutti di una bravura ragguardevole, un corpo e un’anima con la sua direzione. Al punto di saperlo seguire in qualunque sfumatura, accento, inflessione da lui voluti mentre lancia i suoi input come lanciasse incantesimi.

I suoi gesti sono simbolici, simili ai mudrā delle religioni orientali: dalle mani, con le singole dita e coinvolgendo l’intero corpo, si diffonde un flusso di forze spirituali.

Mai vista una simile coesione tra gruppi strumentali, tutti ondeggianti da un lato i violini primi, dall’altro i secondi, infuocati gli archi, vellutati e malinconici i legni, spiritati e terrifici gli ottoni. Una sincronia perfetta a dir poco, uno studio del dettaglio da lasciare stupiti, reso invece con naturalezza calcolata e ben mostrata, che si scioglie soltanto alla fine in calorosi abbracci, felici strette di mano e rallegramenti reciproci tra tutti gli orchestrali, bell’esempio di collaborazione viva, sentita, vissuta con assoluto rispetto e senso di appartenenza, non soltanto a una squadra ma un mondo.

Nel dare platealmente l’attacco della sinfonia de La Forza del Destino, il suo ossequio a Verdi nella circostanza del Festival, quale deus ex machina Correntzis è già magicamente compenetrato nella musica che deve ancora iniziare. Comme d’habitude senza bacchetta, inaugura un’esecuzione crepitante che si srotola tra i ritmi verdiani, gli accenti perentori e la melodia incalzante degli archi, i violini secondi disposti di fronte ai primi, avviandosi verso il trionfo. Immediato lo scroscio reboante degli applausi. Un’entrée che ha fornito subito il peso specifico del contenuto da gustare nella serata. Palpabile la tensione di un pubblico ben conscio di partecipare a una straordinaria epifania della bellezza, fervoroso ma inchiodato alle poltrone, immobile e senza quasi respirare, nei palchi.

Nel suo entusiasmante fare musica con tutto sé stesso, il maestro ha quindi accolto e accompagnato la violoncellista Miriam Prandi nell’esecuzione delle Variazioni su un tema rococò op.33 di Pëtr Il’ič Čajkovskij (Votkinsk 1840 – San Pietroburgo 1893).

Tecnicamente agguerrita, padrona del suo strumento e capace di cavarne ogni tipo di virtuosismo, la solista esibisce suono chiaro e intonazione ineccepibile, offrendo una lettura delle variazioni piuttosto asciutta, pulitissima nel preziosismo degli abbellimenti. La sua costruzione è nitida e organizzata, i dettagli sono a fuoco, la ricerca timbrica ricca di sfumature, centellinata soprattutto nel ‘piano’ e nel ‘pianissimo’ (il suono si spegne nell’ultima vibrazione udibile), tuttavia talora piuttosto neutra. La sua cavata infatti pare in qualche momento contenuta e il suono, senz’altro idoneo a un’interpretazione raffinata, si scalda poco nonostante la passione. Altresì gli elementi manieristici del brano mostrano abbastanza quella graziosità accattivante che sa rasentare la leziosità senza incapparvi, parendo tuttavia attestarsi nel limbo dell’esattezza analitica, sottile, oggettiva.

Comunque di ammirevole bravura, la Prandi è perfettamente a suo agio sotto la direzione di Courrentzis, il quale, nella sua infinita attitudine sembra prenderla per mano e invitarla a danzare, dialogando con lei al momento opportuno, lasciandole campo libero ove necessario e ammiccando con le sue espressioni facciali fino a spingersi verso il suo volto, accostandosi o indietreggiando come a rivolgerle inviti e domande. Ma, di più, le apre la porta, le stende un tappeto e in ogni momento segue il dipanarsi del suo discorso facendone risaltare al massimo la grande perizia.

 

L’ottima violoncellista è encomiata con scrosci di applausi ripetuti e concede ben tre bis, concludendo a sorpresa, dopo i due contemporanei Giovanni Sollima e Pēteris Vasks, con il Preludio della prima Suite per violoncello di Johann Sebastian Bach (Eisenach 1685-Lipsia 1750), e lasciando la sala nella concentrazione altamente meditativa che ha saputo creare col suo pregevole strumento, un Giovanni Grancino (Milano 1712 ca.) affidatole dalla Fondazione Pro Canale di Milano.

La Sinfonia n.5 in Re min. op. 47 di Dmítrij Dmítrievič Šostakóvič (San Pietroburgo 1906 – Mosca 1975) è il piatto ghiotto che tutti aspettano nella seconda parte del programma. E la meraviglia è assicurata.

La poetica di questa composizione è già di per sé interessante ed emblematica delle idee politiche e della statura artistica di Šostakovič, espresse in uno stile ironico, ingenuamente retorico e cinico al contempo, infine tragico e desolato. La particolare scrittura rende unica e immediatamente distinguibile la cifra di questo compositore la cui parabola artistica è direttamente rapportata alla politica stalinista che nel 1936, sulla Pravda, definì ‘confusione’ la sua musica.

Costituita da quattro movimenti la quinta risponde a un progetto di definizione dell’uomo, ardua ambizione così sintetizzata dallo stesso autore: «II soggetto della mia Sinfonia è il divenire, è la realizzazione dell’uomo. Perché è lui, l’individuo umano con tutte le sue emozioni e le sue tragedie che io ho posto al centro della composizione».  E conclude con la soluzione di un «ottimismo che vince ogni cosa» nell’Allegro non troppo del quarto movimento.

Tra perfezione e virtuosismo Courrentzis parte dal segno, come volesse plasmare la materia sonora attraverso ogni parametro possibile, dal timbro alla dinamica, dall’articolazione delle frasi agli accenti, tenendo sempre saldamente il timone, cosicché la partitura nelle sue mani diviene un mezzo lessicale che va strutturandosi man mano, e con esito abbagliante.

Già nel primo movimento, ‘Moderato,’ il crescendo del pieno orchestrale incute timore. Gigantesco, potente e aggressivo alla maniera di un’immagine geometrica del Suprematismo pittorico, potrebbe rimandare all’avanguardia del primo novecento di pittori quali Kazimir Severinovič Malevič (Kiev, 1879 – Leningrado, 1935) e altrettanto alle immagini trionfalistiche del Realismo sovietico di Aleksandr Gerasimov (Kozlov 1881- Mosca 1963).

Sovrasta la sbalorditiva quantità di suono che si sviluppa talmente soverchiante da sembrare un macigno con l’effetto di creare un clima senz’aria, senza scampo. Basti pensare all’entrata delle trombe prepotenti e al variegato rullo dei timpani, che da misterioso e minaccioso diviene un tonfo tonitruante. La mastodontica massa sonora e il suo volume, imponente fino ad opprimere, sortiscono timbricamente un effetto ‘schiacciato’, piatto, avulso da sentimenti. Non un canto bensì una pietra catacombale caduta sul mondo.

A questo fa da pendent un’oasi di lugubre meditazione, con gli archi ripiegati in uno sconforto che non lascia intravedere speranze.

Allorquando la musica torna a toni più contenuti, si apprezza il dialogare tra i legni, si gode l’entrata dei corni che introduce l’assolo del flauto, cui si avvicenda infine il primo violino. Scintillante la celesta nel reiterare un gradevole passaggio scalare cromatico in chiusura, nell’amaro sotto traccia del costrutto del massimo compositore dell’allora città di Leningrado.

Via via che i movimenti della sinfonia si snodano sotto le mani di Courrentzis la tensione aumenta trattenendo tutto il pubblico abbacinato da una suggestione stupenda.

Il concerto si conclude, dopo un passo di poderosa fanfara, con l’apoteosi finale, tra ovazioni incontenibili. Due bis da Romeo e Giulietta di Prokof’ev.

La recensione si riferisce al concerto di sabato 12 ottobre 2024

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