di CINZIA DICHIARA-
Spettacolo di spiccata coerenza interpretativa quello del Ballo in Maschera per la XXIV Edizione del Festival Verdi, una produzione del capolavoro verdiano in tre atti, su libretto di Antonio Somma, che coinvolge un cast di giovani artisti e allievi dell’Accademia Verdiana, sul palco, e l’Orchestra Giovanile Italiana, in buca. Una entusiasmante cooperazione coordinata dalla regia del giovane Daniele Menghini, già assistente di Graham Vick a Roma, al quale interessa soprattutto centrare il focus ‘Potere e Politica’ di questa edizione, realizzata in un’ambientazione orrifica, trasgressiva e stregonesca, allestita presso l’accogliente teatro di Busseto.
Edificato a metà Ottocento, con la sala tappezzata di velluti e damaschi rossi e i palchetti decorati da stucchi e fregi dorati al di sotto delle pitture della volta dal grande lampadario centrale, questo tempietto della lirica ha una capienza di soli 300 posti ed è, neanche a dirsi, affollatissimo.
In apertura di sipario, una trovata altamente suggestiva preannuncia il particolare allestimento: un palloncino colorato sospeso sul palcoscenico, lo attraversa tutto linearmente per andare a finire nelle mani di uno degli invitati con uno scoppio deputato a contrassegnare, in funzione di ciack cinematografico, l’inizio dell’azione, un ballo mascherato appunto, che appare immediatamente provocatorio, tra personaggi in preda allo stordimento e agli eccessi, collocati in un ambiente piuttosto atemporale, tetro e immaginifico, improntato a tinte dark.
Sul podio Fabio Biondi, noto soprattutto per la sua attività alla testa dell’ensemble barocco-classico Europa Galante e da tempo in cammino nel settore operistico tra sette e ottocento, la cui perizia nel trattare la finezza cameristica giova alla resa di una partitura con organico ridotto per le dimensioni del teatro-bomboniera di Busseto. Il direttore cerca infatti di ottenere dai ragazzi della compagine orchestrale un sapido ed efficace ventaglio di effetti e di valorizzare i dettagli delle parti in dialogo e in sovrapposizione: lo si evince nelle diverse fasi drammaturgiche, in particolar modo nel trattamento del tessuto sinfonico, come nella differenziazione tra le entrate e gli intrecci tematici del fugato iniziale, biglietto di presentazione di una direzione attenta. E nell’esaltazione di passaggi deflagranti, nell’accentazione degli elementi profondamente tragici, nella scansione degli accompagnamenti ritmati con aplomb, talora forse pesante ma funzionale al senso drammatico, nella chiarezza di rimandi degli elementi della scrittura a mo’ di citazioni ben chiare e riconoscibili, come i rimandi a Jacques Offenbach altresì ai ricorrenti stilemi compositivi verdiani ben evidenziati, pur se talora privi dell’opportuno slancio.
Inoltre se ne apprezza l’equilibrio dei piani sonori tra le diverse famiglie strumentali, la cura delle prime parti, tutte davvero molto valide e preparate, tra le quali emerge un flauto vellutato, un clarinetto perlato, degli archi ben intonati, un’arpa luminosa, che Biondi guida nel melodizzare ogni inciso con la stessa calda espressività che cerca di imprimere alle voci, tramite un gesto teso a raccogliere insieme il risultato.
Qualche minima discrasia con i solisti ha lasciato emergere un’intesa non sempre coincidente nei tempi, da lui preferiti più calmi e meditativi nei passi espressivi. Pertanto, talora si è sentita l’orchestra ‘stentare’ e il cantante ‘tirare avanti’, ma questo può accadere in una produzione ‘fresca’ e nella combinazione del tutto nuova nella coesione strutturale. Soltanto, le tinte grottesche paiono non sempre affiorare in questa direzione non sempre incline alla leggerezza e all’ironia forse perché intenta a far quadrare il cerchio tra buca e palcoscenico, compreso il Coro del Regio di Parma diretto da Martino Faggiani, ricco di sonorità e molto ben calato nello stile verdiano, perfetto anche fuori scena.
In effetti ciò che ha connotato decisamente lo svolgimento dell’opera è la sua realizzazione in una chiave orientata e spinta verso la cifra dell’orrido, secondo un sofisticato stile camp, dunque sostanziata dall’adozione di parametri ed elementi anche kitsch, provenienti dalla cultura di massa del secondo novecento rivalutata dalla cultura postmoderna.
Ecco dunque il carattere da teatro di vaudeville trasformato in un clima vicino ai festeggiamenti di Halloween e farcito di allusioni tra il gender fluid, tema direttamente legato alla cultura camp, e l’evocazione di un sabba. Condivisibile o meno, certamente distante dal nostro Verdi nazionale, tutto ciò ha evidenziato un’estetica studiatissima, dai particolari illustrativi di sicura efficacia, che proseguono come nota di fondo permanente.
Un contesto gotico noir, spettrale ma ironico e irriverente, che rischia di apparire talora sacrilego lasciando il pubblico davvero stupito. Divertente l’idea della coreografia in cui gli invitati si muovono in un ballo di gruppo con gesti tutti eguali e in sequenza. Aspira a una grottesca danse macabre dadaista tuttavia risultando piuttosto statica e priva di verve.
Il cast di giovani promesse si dimostra valido e ben preparato.
Il Riccardo conte di Warwick di Giovanni Sala, tenore specializzato in ruoli mozartiani, è baldanzoso e versatile negli accenti necessari al personaggio, dalla corda drammatica al tono leggero del crapulone, fino alla dolcissima e sentita passionalità del duetto d’amore con Amelia del II Atto. Apprezzabile l’impegno del cantante il quale si cala nel personaggio con sincera convinzione e ne abbraccia il destino attraverso la sua vocalità non pienamente verdiana, orientata comunque a una bella espressività nell’aria ‘Ma se m’è forza perderti’ del III Atto. Altrettanto riusciti i pezzi d’insieme, come il quintetto ‘È scherzo od è follia’.
Inizialmente il tenore è atteggiato a un’allure affettiva ambigua con il suo fido segretario Renato, inoltre compare alla festa incoronato e cinto da una veste a ruota, il volto truccato in modo pesante e vistoso. Tutto in lui è straripante, così il suo seguito, popolato da guasconi costantemente presentati in costumi equivoci e caricaturali.
Questo lo segue nel folle divertimento e nell’assenza di remore tenendo dietro alla sua stessa esortazione «Ogni cura si doni al diletto». Ancora, nel gioco dei travestimenti Riccardo compare al cospetto della maga nella figura di un finto marinaio in vesti piratesche. Il suo carattere gaudente vuole richiamare la figura del monarca svedese Gustavo III, assassinato da cospiratori, soggetto del dramma francese Gustave III, ou Le Bal masqué da cui l’opera è tratta.
Più avanti è l’amata Amelia a indossare i pantaloni, dettaglio che, seppur inserito nell’ambito del travestimento carnevalesco, può sottintendere uno scambio di genere nel gioco di richiami sottintesi.
Non troppo originali ma perfetti per l’habitat prestabilito, i costumi di Nika Campisi sono confezionati nell’intento riuscitissimo di costruire un’estetica contemporanea che occhieggia al barocco e mostra gorgiere rinascimentali in stile Tudor. Un pot-pourri monocromo, fantasioso ma di estrema saldezza, da cui si evince un disegno interpretativo chiaro e volitivo, a partire dalla scena, unica e valida per tutti i quadri, in grado di divenire di volta in volta stanza da studio nell’abitazione di Renato o sala del trono, antro di Ulrica e infine salone delle feste, grazie al talento dello scenografo Davide Signorini, con l’impiego di elementi modificabili e il diverso taglio e raggio delle luci cangianti di Gianni Bertoli.
Si potrà dire che Verdi è altro, domandarsi se il motivo dell’happening in maschera e il registro horror si prestino a concepire un intero arsenale di trovate innovative, ma non si può negare che la costruzione è effettuata brillantemente e in uno stile singolare.
La romantica figura di Amelia, diviene una dark lady. Nel ruolo, Caterina Marchesini mostra di possedere la qualità di voce idonea alla cantabilità naturalmente italiana, in particolare nel legato, nella morbida pienezza dei centri e negli slanci intonatissimi degli acuti. Con la sua lirica rotondità, seppure ancora da maturare il soprano è a suo agio nella tessitura verdiana. Il sostegno di capacità tecniche sicure e al contempo sorvegliate, la permette di essere coinvolgente con un’intensità gradualmente più espressiva. Ha forte presenza scenica nell’aria ‘Ecco l’orrido campo’ e commuove per la profonda afflizione in ‘Morrò ma prima in grazia’, interpretando ora con impeto, ora con emotivo coinvolgimento anche i numeri d’ensemble.
Intensa anche in pezzi come il terzetto della scena IX del I Atto, con Riccardo e la maga Ulrica che indica nella pozione filtrata da un’erba magica un rimedio le cui stille “rinnovano il cor”, rivela accenti dolcissimi grazie alla sensibile carica affettuosa. In alcuni momenti risalta giustamente nel rapporto tra le voci, quando quella maschile di Riccardo, al momento meno potente, sembra lasciar prevalere l’insieme femminile ma nel dialogo a due Amelia-Riccardo l’intesa viene riportata a un ottimo bilanciamento.
Il gioco degli scambi d’identità di genere è confermato dal trattamento della figura del paggio Oscar, l’unico personaggio en travesti, nel quale risalta una sorta di voluta inesattezza filologica. Il regista decide infatti di mostrarlo così com’è in quanto creatura reale, quindi di genere femminile, in barba alla tradizione teatrale che nel travesti implica un personaggio contraddistinto da abiti maschili: un travestimento nel travestimento, insomma. Difatti la spigliata Licia Piermatteo compare in pantaloncini a sbuffo, collaretto plissé e basco piumato secondo l’iconico costume da paggio, tuttavia del tutto femminile in calze a rete di pizzo.
La simpatia del suo personaggio è una nota di comicità leggera e frizzante che predomina anche attraverso l’atteggiamento buffonesco e lo spiritoso saltellare. In ‘Saper vorreste’ il soprano si distingue per la vocalità agile e chiara nonché per le spigliate capacità attoriali, riuscendo per un momento a disperdere le tenebre circostanti. Il suo aspetto brillante e giocondo si stacca dalla tetraggine dell’intrigo al quale comunque prende parte attiva. La tipologia del personaggio en travesti, del resto, trova un esemplare precedente nell’analogo paggio del Conte d’Almaviva de Le nozze di Figaro, opera nella quale il volage Cherubino mozartiano si rivela una creatura comica venata di forti malinconie, dunque piuttosto arcana e sfuggente.
Allorquando tornano gli stilemi iniziali, che biechi e spaventosi riecheggiano in uno spirito simile al Macbeth, tra fumi e vapori esalanti dalla seduta del trono posto su una gradinata tondeggiante anziché da un poderoso paiolo sul ‘treppié’, è la maga-strega Ulrica la protagonista della scena, mentre l’upupa ‘sospirò’, la salamandra ‘sibilò’ e il gemito delle trombe ‘parlò’.
Nel ruolo, applaudito a scena aperta, si fa valere il mezzosoprano Danbi Lee, che sa rivestire, ora di pienezza, ora di inesorabile scabrosità, il suo vaticinio funesto. Nella sua aria di presentazione riesce a tessere inflessioni carismatiche, i versi pronunciati con dizione soppesata, la voce emessa con un padronanza sia nelle discese nel registro di petto, non troppo consistente, sia nelle perentorie ascese agli acuti, ampi e tonanti. Si impone anche per una evidente capacità attoriale, creando intorno a sé un alone di mistero.
Ora, che Ulrica sia indicata nel libretto quale ‘indovina di razza nera’, in tempi di cancel culture postula un cambiamento non necessario che in questa edizione potrebbe aver ispirato alla regia e al costumista la versione, uguale e contraria, di una maga pallida, alla biacca, forse anche perché luciferina, del tutto spiritata e impressionante, di grande successo nelle sontuose e bislacche vesti di foggia regale elisabettiana, con tanto di bavero alzato a raggiera quale aureola satanica.
Vari sono i dettagli di cambiamenti che insistono sulla modernità in un testo ancorato allo ‘spleen’ risorgimentale di tanta letteratura la cui tristezza malinconica è perfettamente abitata dalle armonie e dai ritmi delle orchestrazioni verdiane, dalle linee melodiche dolorose nella declamazione sentimentale, eroica e idealistica e da quei tipici accompagnamenti staccati, rivelatori di uno stile.
Anche il tema della maternità della protagonista è cambiato di segno, in quanto Amelia è mostrata col fantolino in braccio fin dall’inizio, anziché rivelarne l’esistenza al III Atto, nel quale l’agnizione dovrebbe costituire un coup de théâtre sensazionale. Ma l’espediente della maternità esibita concorre a rendere la donna più compassionevole a fronte dell’efferatezza dei congiurati, spregiudicati in doppiopetto borghese e occhiali scuri da agenti 007, una veste che, Renato compreso, li distingue da tutti gli altri. Quale traditore destinato, infatti, il fido amico del conte reca in anticipo il segno della colpevolezza e quindi della sua appartenenza al gruppo dei traditori, in una sorta di suddivisione del cast fra buoni e cattivi che affonda nel retaggio di una tradizionale disposizione delle parti, a testimoniare i molti influssi di una mise en scène ricca di spunti anche classici.
La commistione di comico e tragico, di spensieratezza e di oscurità, di elevato e grottesco vi oscillano in bilico, simboleggiati sulla scena nell’accostamento di funerei angeli barocchi che penzolano dall’alto e lunghi scheletri bianchi appesi. Nell’incessante intrattenimento in clima mortuario, un trono, simbolo del potere rivestito di teschi, diviene baricentro dello spazio scenico.
Qui si consuma il delitto finale per mano di Lodovico Filippo Ravizza nel ruolo di Renato, segretario di Riccardo e sposo di Amelia. Piuttosto autorevole nella presenza scenica e tecnicamente sicuro nell’emissione, nella robustezza dei fiati e nell’intonazione dal bel timbro bronzeo, il baritono sfodera una naturalezza musicale nell’articolazione delle frasi che, unita alla capacità attoriale, all’estensione della vocalità pastosa con possibilità dinamiche da sfruttare, riesce a colpire il pubblico e riscuote ovazioni con la sua toccante cabaletta ‘Eri tu, che macchiavi quell’anima’.
Buona la vocalità e l’interpretazione dei personaggi secondari, il Silvano di Giuseppe Todisco, con il servo di Amelia – primo giudice, doppio ruolo rivestito da Francesco Congiu.
La coppia dei congiurati, il Samuel di Agostino Subacchi e il Tom Lorenzo Barbieri, si rivela ben assortita e spigliata nella vocalità e nella recitazione.
Un momento prima dello spettacolo il basso Agostino Subacchi risponde a qualche domanda sul lavoro svolto e sulla regia, che dichiara di aver sinceramente apprezzato. Secondo il cantante, il regista è riuscito a trovare la giusta leggerezza nei personaggi concepiti da Verdi. Un Ballo moderno in cui emerge «il vero significato che ogni personaggio vuole esprimere».
Sempre secondo l’interprete, il regista ha saputo porre in relazione tra loro gli elementi del cast, dando un senso alle azioni che ciascuno di essi compie verso gli altri. Alla domanda se tale sua impressione sia condivisa dai colleghi conferma, spiegando che inizialmente ciascuno portava con sé la visione tradizionale studiata. Dunque lo sforzo richiesto è stato quello di spogliarsi dell’abitudine esecutiva. Tuttavia già intorno al terzo giorno di prove tutti hanno abbracciato volentieri i ‘nuovi’ ruoli.
Nell’attesa di un caffè abbiamo avuto modo di porre ancora una domanda:
- Quale scarto c’è tra il personaggio preparato da ciascun membro del cast e il cambiamento desiderato da questa regia?
È uno scarto grande e fondamentale per lo spettatore, il quale vede in scena un personaggio reale, secondo il modo più autentico di attualizzare le opere.
- Che cosa è rimasto della tradizione precedente in questa regia?
Tutta la storia, dall’inizio alla fine, non è stata minimamente toccata.
- Una regia innovativa che vale?
Assolutamente.
La recensione si riferisce alla recita di sabato 12 ottobre 2024
Un Ballo in Maschera
(melodramma in tre atti)
Musica di Giuseppe Verdi
Libretto di Antonio Somma
da Gustave III ou Le bal masqué di Eugène Scribe
Personaggi e interpreti
Riccardo Giovanni Sala
Renato Lodovico Filippo Ravizza
Amelia Caterina Marchesini
Ulrica Danbi Lee*
Oscar Licia Piermatteo*
Silvano Giuseppe Todisco
Samuel Agostino Subacchi*
Tom Lorenzo Barbieri
Un giudice- Un servo di Amelia Francesco Congiu*
Allievi dell’Accademia Verdiana
Orchestra Giovanile Italiana
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore Fabio Biondi
Maestro del coro Martino Faggiani
Regia Daniele Menghini
Scene Davide Signorini
Costumi Nika Campisi
Luci Gianni Bertoli