Uto Ughi incontra il pubblico a Roma presso “La chiave del violino”

di CINZIA DICHIARA-

ROMA- Il negozio di strumenti ad arco ‘La Chiave del Violino’ rappresenta a Roma un centro di cultura, in particolare del violino, che tutti conoscono. La sua attività prevede infatti anche l’organizzazione di incontri con importanti esponenti del mondo musicale, arricchendo in tal modo l’offerta della capitale nel settore specifico del patrimonio di conoscenze musicali legate agli archi e alla liuteria.

Ieri sera, molto atteso l’appuntamento con Uto Ughi, intervenuto a dialogare con Luca Lucibello, direttore editoriale della rivista Archi Magazine, e infine col pubblico, in una sorta di accademia tra pochi intimi ammessi alla confidenze e ai racconti di un artista notissimo, che ha tracciato parte del cammino dell’interpretazione sulle mappe della musica importante, invitato a esibirsi presso sale da concerto prestigiose quali Concertgebouw di Amsterdam, Boston Symphony Orchestra, Philadelphia Orchestra, New York Philharmonic, Washington Symphony Orchestra e molte altre, e con musicisti di rango quali Barbirolli, Celibidache, Gergiev, Giulini, Kondrascin, Jansons, Leitner, Inbal, Maazel, Masur, Mehta, Nagano, Penderecki, Pretre, Sawallisch, Sinopoli, Spivakov, Temirkanov.

Basandosi sul volume autobiografico di Ughi del 2013, dal titolo Quel diavolo di un trillo – Note della mia vita, Lucibello ha elencato una serie di domande circostanziate che hanno permesso agli ospiti di conoscere dalla viva voce del maestro notizie circa le origini della famiglia, i suoi inizi, la sua formazione giovanile alla scuola di maestri storici, gli esordi, la vita concertistica, gli incontri e le collaborazioni con grandi artisti, frammisti ad aneddoti che appartengono alla sua vita.

Con discrezione e precisa puntualizzazione Lucibello ha esplorato vari piani di interesse che hanno permesso di vedere il maestro nella sua luce di interprete di un tempo ancora molto vicino a noi ma in via di evoluzione verso un mondo, sotto gli occhi di tutti, tecnicizzato e frettoloso, talora dimentico della tradizione, tanto che è parso un vero piacere per gli astanti di rigenerarsi alla fonte di magnifici ricordi, e care e preziose testimonianze.

Ed ecco emergere da questo dialogo un musicista vecchio stampo, direbbe qualcuno, ancora generoso nel citare i grandissimi maestri, da Enescu a Oistrach, di porne in risalto le qualità come assiomi irrinunciabili per un giovane allievo di allora, a fronte del generale disinteresse che oggi imperversa a livello di diffusione di massa rispetto alla valenza educativa della musica e alla sua bellezza.

Pochi grandi artisti si concedono al pubblico confidando anche di essere incappati in errori come quello di non aver accettato di imbarcarsi nell’impresa, e allora, a diciassette anni e senza conoscere il russo era davvero un’impresa, di seguire David Ojstrach in Russia, cosa che gli avrebbe assicurato notevoli chance.

E pochi parlerebbero della paura in pubblico, dello stress precedente e conseguente alla dura prova della sala d’incisione, la prima volta a Londra per la Emi, all’età di 16 anni. Era un’altra dimensione, si aveva pochissimo tempo per registrare, magari solo tre ore, con una tensione psicologica enorme per il fatto che si giocasse tutto in poco tempo. Inoltre non esisteva minimamente la possibilità di correggere nota per nota come oggi, dunque realizzare un’incisione comportava un’ansietà unica. Ughi confessa che non riusciva a dormire per una settimana prima di fare il disco e una dopo: “Nervosismo e paura di non essere all’altezza, magari in un concerto di Beethoven”.

E qui interviene da maestro di lungo corso a spiegare che un’esecuzione dipende dal suono. Occorre possedere un bel suono. Altrimenti non può esservi buona esecuzione.

Alla richiesta di parlare del suo disco con Sonate e Partite di Bach registrate all’Accademia Chigiana, risponde che si trattò di un lavoro molto impegnativo. E spiega che Bach riunisce nel violino tutta la polifonia, quando invece lo strumento è melodico. Bach trasforma il violino in strumento dalle diverse voci, niente di più difficile. Cosicché una fuga a quattro voci diviene una sorta di brano corale. “Sono pochi gli artisti che lo possono fare” – conclude.

E indica il più grande interprete in un violoncellista passato alla storia, Pablo Casals, che faceva di ogni suite di Bach un monumento. Prima di lui tutti eseguivano Bach troppo liberamente. Egli seppe coniugare la libertà artistica con la disciplina necessaria.

Quindi gli viene chiesto del suo Concerto di Schumann diretto da Wolfgang Sawallisch e in un breve giro di frasi sa far capire all’uditorio come Schumann sia un autore illimitato che tuttavia aveva una scrittura molto particolare e non sapeva scrivere bene per gli strumenti, semplicemente perché concepiva la composizione in modo ideale. La musica in lui viene prima di tutto, indipendentemente da una scrittura che sia adatta allo strumento che deve eseguirla. Schumann non guardava al risultato esteriore.

Cosicché la parte del violino è difficile da rendere, poiché scritta molto sulle note basse. Il violino infatti dà il meglio nelle note alte, nel registro acuto. Anche nelle sonate si pone un analogo problema della scrittura, possono confermarlo i pianisti. Schumann era un musicista profondo, quindi per interpretarne l’opera occorre saper coniugare i due aspetti della facilità e dell’espressività.

Il modo di colloquiare è accattivante. Ughi è sempre stato un gran signore della musica. Nel tempo la sua eleganza di eloquio si è trasformata nella simpatia umana di un artista che dall’alto del proprio cammino nella musica guarda con serenità al mondo e restituisce di esso la parte migliore filtrata attraverso una sensibilità raffinata e al contempo umana, pittosto diretta eppure mai frontale, sempre gentile, anche nella battuta che usa come leit-motiv di un racconto che invece lascia trapelare un incanto segreto, una nostalgia, un affetto incontenibile per un mondo che respira in lui vivamente. In modo apparentemente sorvegliato ma con la vivacità interiore di un fanciullino, narra della sua famiglia istriana trasferita a Busto Arsizio e dedita a coltivare la musica grazie al padre che aveva studiato canto lirico.

Dice del suo primo maestro, Coggi, una spalla di Toscanini che frequentava i concerti di musica da camera organizzati da suo padre. Era cremonese e aveva modi burberi analoghi a quelli del suo celeberrimo direttore del quale narrava l’aneddotica. Pare che, quando si inquietava, Toscanini si rivolgesse ai professori d’orchestra con epiteti e metafore tremende: “Sembrate un carro di buoi, ho vergogna io per voi!”. Cosa impensabile oggi.

E così attacca a parlare dei maestri che hanno contribuito alla sua formazione. Tra i principali, senza dubbio George Enescu che gli dedicava ogni pomeriggio due o tre ore e ciò denotava la sua reale generosità.

Con l’umiltà dei grandi Ughi manifesta qualche rammarico per non aver approfondito lo studio della tecnica ma Enescu aveva gran piacere di affrontare i grandi pezzi come la Ciaccona e non gli esercizi. Quindi narra di un episodio di telepatia legato allo storico violinista romeno. Una notte aveva sognato di lui, immaginandolo in partenza sul ponte di una nave, nell’atto di salutarlo. Seppe in seguito che quella notte era venuto a mancare. “Aveva voluto salutarmi così”.

Prima che la sala si commuova, prosegue citando un altro maestro sul quale intende soffermarsi, Corrado Romano, che definisce bravissimo a insegnare la tecnica, avendo quegli studiato con il cosiddetto dottore del violino Carl Flesh. “Quando è morto Romano ho perso un punto di riferimento”, soggiunge infine con sentito rimpianto.

E apre una breve parentesi accennando ai più noti virtuosi del violino delle generazioni passate, tutti ebrei russi tranne Zino Francescatti. Quindi passa a parlare dei suoi strumenti, del suo Stradivari del 1701 denominato “Kreutzer” perché appartenuto all’omonimo violinista a cui Beethoven aveva dedicato la famosa Sonata. Lo aveva visto per la prima volta a dieci anni pensando di non poterlo avere; invece, quando ebbe 17 anni il padre lo acquistò da un collezionista tedesco, grazie a un amante della musica, il conte Sassoli de’ Bianchi, fondatore della fabbrica di liquori Buton. Riuscì invece a garantirsi l’acquisto del suo Guarneri del Gesù appartenuto al grande violinista Arthur Grumiaux, soltanto andando personalmente a Bruxelles presso la vedova.

Si tratta di uno strumento costruito nel 1744 dal suono caldo, con timbro scuro, centrato sulle rotondità del registro grave, forse uno dei più bei “Guarneri” esistenti, a detta di Ughi idoneo al repertorio romantico. Ma aggiunge che i violini di tale livello sono adatti a ogni repertorio: “chi crea il suono è il violinista”. E racconta di aver sentito suonare meravigliosamente degli zingari a Budapest con violini rimediati, e stupendi violini massacrati da nomi conosciuti.

Alla domanda sull’importanza di un buon arco risponde che gli archetti hanno importanza “ma anche se gli archettai dicono che è più importante l’arco, io ho suonato per 50 anni con lo stesso arco”. I migliori sono francesi, indubbiamente più accurati di quelli italiani.

È pressoché emozionante il suo modo così semplice, intelligente, fuori dal contesto brulicante di maîtres à penser odierni, di raccontarsi e di dimostrare ancora il suo grande rispetto, la riconoscenza verso i suoi maestri e verso tutti i grandi violinisti che ha conosciuto e l’hanno ispirato. Narra di come in occasione di concerti di nomi altisonanti del panorama mondiale entrasse in fermento tempo prima, nell’attesa elettrizzante. E conclude che Oggi i giovani sono portati a criticare. E totali incapaci si permettono di giudicare ‘color che sanno’. È un’epoca che smorza le emozioni.”

  • È un momento storico di sottocultura.- Soggiunge una signora dal pubblico.

Quindi passa ad illustrare nome per nome i grandi musicisti conosciuti, partendo da Yehudi Menuhin, del quale amava una ricerca spirituale che non avvertiva in altri interpreti, un miracolo che scaturiva da una fonte sonora. “Man mano che entrava nell’interpretazioni”racconta“non era più suono di violino ma bellezza pura”.

Quindi passa a citare i grandi interpreti italiani come Pina Carmirelli e, tra i preferiti, Aldo Ferraresi, “che nessuno conosce”.

-“Vergogna della cultura italiana! I giovani allievi di conservatorio non sanno neanche che è esistito”.

E aggiunge talora un tocco metafisico mediante un riferimento esoterico:

“Un liutaio di Roma mi ha fatto vedere che in una sua fotografia dietro a lui compare una maschera, come fosse uno spirito guida ad ispirarlo”.

Racconta con ironia di Martha Argerich: “La conobbi quando studiavo a Ginevra con Corrado Romano. Aveva bioritmi particolari al contrario dei miei. Era un animale notturno, di giorno non connetteva, cominciava ad essere se stessa la sera. Io la sera ero distrutto e suonavo malissimo, invocavo pace e riposo, ma la accettavo con le sue stramberie. Poi sono fuggito, e così lei da me.”

E sollecitato da Lucibelli riprende a narrare dei suoi viaggi per il mondo.

“Avevo vent’anni, sessant’anni fa! Imperversava l’incubo della bomba atomica, del nucleare, era un tempo in cui i valori sembravano smarriti. L’amore per l’arte era la speranza per il mondo”.

In particolare riferisce dell’invito in Giappone, al palazzo imperiale di Tokio, presso l’imperatore dove “un pomeriggio facemmo musica con tutta la famiglia che suonava”. Quindi dell’incontro con altri grandi personalità come Madre Teresa di Calcutta, la quale gli insegnò in occasione di un concerto di beneficenza a non aspettarsi una prova di ringraziamento per una buona azione compiuta. “Questa è già nell’averla potuta compiere”.

Poi incontrò Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. E qui manifesta la sua insofferenza per quello che si sente nelle chiese oggi: “Non capisco come la chiesa dopo aver prodotto con Palestrina, con Bach musica sublime non la faccia eseguire, facendo suonare compositori attuali, come rumore.” Ed è ciò che pensiamo in molti.

Prima di concludere parla del Premio Paganini di Genova, del quale presiederà la giuria nella prossima edizione e si dice contento poiché entrerà a contatto con le scuole attuali: “Violinisti con tecnica pazzesca però suonano tutto in velocità”.

Si accomiata illustrando il progetto della sua Fondazione, istituita con la signora Natascia Chiarlo e con la sua collaboratrice storica Maryse Regard, allieva di Grumiaux oggi nei Filarmonici di Roma, sulla base di un protocollo d’intesa con il ministero, per la finalità, di diffondere la musica classica nelle scuole, organizzare festival, masterclass, costituire orchestre giovanili.

“Abbiamo un’eredità immensa, una miniera d’arte che potrebbe dare gioia ai giovani ma non viene insegnata nelle scuole. I ministri promettono sempre e poi niente cambia. Speriamo che con la fondazione migliori qualcosa”.

Infine si trattiene con il pubblico a parlare della scuola italiana: “Mi adopero per i giovani, dovrebbero farlo tutti i musicisti”.

È scesa la sera, ma lui sarebbe rimasto ancora volentieri a parlare di musica.

image_pdfEsporta in PDFimage_printStampa la pagina
LEGGI TUTTE LE NOTIZIE